Chiudere con la pandemia

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Quadro di riferimento

Il titolo non è provocatorio, anche se sembra improbabile, e pretenzioso. Lo scenario include la novità di un generale pluridecorato secondo cui «ormai è tempo di correre», di «dar fuoco a tutte le polveri», per dimostrare «la perfetta capacità di realizzare il piano vaccinale», che però rimane assolutamente segreto, ben avvolto-mimetizzato nelle promesse di approvvigionamenti garantiti, di piattaforme funzionanti, di immunità di gregge alle porte (con incertezze oscillanti, se in estate o in autunno), di ritorno alla normalità. Ma lo stesso scenario conferma (in coerenza con le novità di una gestione di guerra?) che il problema non è la pandemia ma la sua gestione. Soprattutto nella comunicazione: perfettamente confondente e ansiogena. A livello istituzionale centrale, regionale, dei media. Su tutto: dalla telenovela sulle complicanze e le indicazioni/proibizioni di Astra Zeneca, alle scuole, ai vaccinatori… A tutto mirata, salvo che a far crescere partecipazione e democrazia attraverso la condivisione di ciò che è certo è di ciò che è prodotto di ignoranza, incompetenza, scorrettezza, interessi (privati o politici, per corruzione o non importa per cos’altro).

La scelta che si vuole suggerire con il titolo – a un anno e più di distanza dai tragici picchi di mortalità, e di fronte all’indifferenza con cui i bollettini forniscono numeri e percentuali che servono per aumentare le chiacchiere ma non la comprensione di realtà tanto eterogenee come le morti (evitabili? in che età? dove?), delle dosi di vaccino disponibile, degli esclusi o inclusi dalle vaccinazioni – è quella di provare a tirare poche somme certe, che servano per non continuare a navigare nella nebbia. Che è troppo lunga e troppo strana. Solo le persone sembrano non aver più spazio e identità, se non entrano, per inclusione o per esclusione, in statistiche che di sanitario hanno sempre meno. Senza, o quasi, poter pensare ad altro, di presenza o da remoto, a livello pubblico, e nella partecipazione privata alla vita del mondo.

Poche le cose certe e senza nebbia:

– in una comunicazione ufficiale di inizio marzo 2021, i produttori del vaccino Pfizer/BioNTech dichiarano che le loro spese complessive di investimento e ricerca per il 2020 sono state intorno al miliardo di dollari, di cui 445 milioni dati dal Governo tedesco per accelerare sviluppo e produzione. Stime conservative dei guadagni derivanti dal primo blocco di dosi, pari a 1.4 miliardi (rapidamente raddoppiabili e vendibili a un prezzo di mercato superiore di tre-quattro volte) si aggirano intorno ai 26.5 miliardi di dollari;

– la rivista Nature, una delle tre-cinque più autorevoli in campo scientifico a livello mondiale, dedica l’editoriale del 1 aprile 2021 a riassumere la vicenda del rifiuto, da parte dei paesi della World Trade Organization (USA, EU, UK, Australia, Canada…), della richiesta, presentata da tutti gli altri paesi, dall’OMS e da diverse ONG, di sospendere per una volta l’intoccabilità della proprietà intellettuale in termini molto secchi, con inaccettabile trasformazione della pandemia in una guerra che non ha nulla di sanitario, tra ricchi e poveri, tra certamente sommersi e possibilmente salvati;

– i numeri (sempre da Nature e dal Tricontinental Institute for Social research) riferiti a umani, e non solo a dollari/vaccini, sono molto semplici: fino ad oggi solo l’1.5% della popolazione mondiale è stata vaccinata e l’80% di questa appartenente a 10 paesi. Nella migliore delle ipotesi, secondo le stime attuali, non più del 30% dei vaccini potrà andare ai paesi poveri, in un tempo non definito. Escludendo, evidentemente, i luoghi di guerra. Si configura così l’allargamento programmato alla realtà globale del crimine di apartheid medico (praticato da Israele rispetto ai palestinesi nei territori occupati: https://volerelaluna.it/politica/2021/01/12/6-gennaio-2021-la-normalita-degli-apartheid/). Ogni ritardo nel prendere decisioni ora, e non in un tempo «compatibile con accordi di mercato» come ipotizzato a parole dai paesi buonisti (anni, per riformulare accordi nel mondo delle patenti tra paesi che si scontrano per ruoli geopolitici globali), si traduce in un vero e proprio, pianificato, immisurabile “eccesso”. “Genocidio” sarebbe il termine giuridicamente più appropriato ma, vista la nebbia sopra evocata diventata ovunque regola del gioco, è proibito chiamare per nome le cose, gli eventi, i responsabili di quanto succede, e il genocidio per apartheid medico in tempo di Covid-19 mette in maggior evidenza le strutture portanti (non farmaceutiche, ma altrettanto potenti) che neppure pensano a “vaccini” contro le pandemie della fame, dell’igiene, della non-umanità dello “sviluppo”. I dati potrebbero accumularsi. Quanto, in Italia, ma con un occhio informatissimo al mondo, si trova nelle tante cose scritte da Nicoletta Dentico (cfr., da ultimo Geopolitica della salute. Covid-19, OMS e la sfida pandemica, con Eduardo Missoni, Rubbettino, 2021) è, in questo senso, essenziale. Con una vecchia regola, metodologica e molto scientifica, che ripeteva a suo tempo un esperto di sindemie-povertà urbane: «quando si rifiuta un impegno-investimento per un bene essenziale come la casa, sono dieci volte tanto i costi che ci si devono attendere, in termini di perdita di diritti-dignità di vita in una società» (Henri Groues – Abbé Pierre).

Proposte

La pandemia Covid-19 non può più essere considerata un evento prioritariamente sanitario. Mentre sono ovvie (ma ostinatamente trascurate) le deficienze epidemiologiche nella sua gestione, è assolutamente chiaro che la pandemia è sempre più un test della capacità-volontà di democrazia: in Italia, in Europa, a livello globale.

I mezzi sanitari per controllare la pandemia ci sono. Il problema è come, dove, per chi usare questi mezzi. Le difficoltà che si pongono, in Italia e a livello internazionale, sono di tipo politico ed economico. Non dovrebbe essere più permesso usare il Covid-19 come una manipolabile “scusa” per discutere, dividersi, imporsi, imbrogliare con numeri l’opinione pubblica e la politica. A livello centrale o a livello regionale. Valga, per tutti, il caso della Lombardia, dall’inizio alla fine, per le RSA, o per la banalità delle corruzioni, o per il non funzionamento delle piattaforme per le vaccinazioni degli over 80 e via di seguito: è esemplare di come una politica incompetente e schierata a difesa del proprio modello gestionale-economico della sanità, criticato anche da commissioni ad hoc ma dichiarato intoccabile anche “per il dopo”, può restare intoccabile pur avendo un tragico primato mondiale di vittime (le cui storie sono a tutt’oggi secretate).

Un test semplice ed efficace di democrazia informativa dovrebbe essere quello di imporre (il termine non è proprio, ma serve a sottolineare l’urgenza e il senso) ai talk show televisivi dei limiti nella produzione di nebbie informative, travestite da infinite discussioni dove la regola sembra essere quella di non partire mai da dati di cui sia esplicito il grado di incertezza o di evidenza, la continua confusione tra il livello reale e le opinioni personali. Il peso di questo scenario aumenta quando si pensa che l’attenzione al Covid-19 ha di fatto espulso il “dopo” della sanità (come il “dopo” del welfare e della scuola), che dovrebbe invece essere centrale nell’attuale fase di trasparenza politica richiesta per l’accesso ai fondi europei. Il Covid-19 come nebbia si è dimostrato un “paralizzante del pensiero” tanto efficace da essere adottato come droga additiva all’accettazione della non-trasparenza. Se si potesse fare qualcosa nella stessa linea per i giornali, confinando il Covid-19 ai minimi compatibili con le informazioni operativamente necessarie, non sarebbe male. È troppo chiedere ai giornalisti investigativi di andare a vedere se e cosa c’è in ballo “dopo il Covid-19”? Un contenuto esemplificativo del test di democrazia da applicare al PNRR e simili è molto chiaro: qual è lo spazio economico, sociale, istituzionale del “pacchetto welfare” nei suoi diversi aspetti, rispetto ai capitoli della guerra e delle grandi opere? E con quale controllo preventivo che non dichiari obbedienza cieca e assoluta ai dogmi dell’economia, in questi tempi in cui tutto è stato dichiarato flessibile?

L’obiettivo finale della trasformazione del Covid-19 da problema sanitario in test di democrazia è quello di riconcentrare l’attenzione sui diritti delle persone, al di là di tutta l’attenzione alle chiacchiere dei leader politici o di opinione di turno. È un test che tocca la cultura del Paese: occorre far ricomparire le persone (l’evitabilità del loro star male, o del morire) al di là delle procedure, delle insufficienze e degli equilibri gestionali. Nella sua infinita differenza, il popolo dei migranti deve essere in prima linea in questo esercizio di restituzione prioritaria a una democrazia degna di questo nome. O almeno in cammino. Dei segni compaiono: ius soli? Chi sa? La migrazione, come la pandemia, è un buon test della evitabilità della violazione dei diritti fondamentali.

Gli autori

Gianni Tognoni

Gianni Tognoni, medico, è esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. E' stato direttore del Consorzio Negri Sud. Attualmente opera nel Dipartimento di Anestesia-Rianimazione e Emergenza-Urgenza , Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. E' presidente delComitato Etico, Università Bicocca, Milano.

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One Comment on “Chiudere con la pandemia”

  1. Temo che “genocidio” sia una parola assai poco lontana della gestione politica della cosiddetta pandemia. Non siamo solamente di fronte ad una differenziaione tra ricchi e poveri per l’acecsso al vaccino (in continenti come l’Africa, dove l’età media è di 34 anni, il rischio covid è sicuramente assai meno rilevante del rischio fame, guerra civile, malaria, febbre gialla, aids, dissenteria), ma siamo ad una differenziazione tra ricchi e poveri nel diritto alla vita. Nel 2018 l’ONU lamentava 822 milioni di persone senza accesso regolare e sicuro al cibo (vulgo: morti di fame), per buona parte bambini e per la quasi totalità appartenenti ai paesi poveri (ma anche in occidente la povertà sta salendo!). Pochi giorni fa l’IMF ha annunciato un incremento di questo valore, durante il 2020, di 95 milioni. Abbiamo superato, in appena un anno i 900 milioni. Perché? Per la “salvifica” politica covid: lock down, blocco dei lavoratori, chiusura di scuole e relative mense, riduzione o cancellazione di assistenza antimalarica e anti aids nei paesi afflitti da queste piaghe. Perché tanti sforzi per i vaccini per chi se li può comprare (paesi ricchi) e non per dare da mangiare ai paesi poveri? Forse perché i morti di fame non fanno PIL? Perché non hanno soldi da spendere? Perché sono del sud del mondo? L’ONU ha stimato un milione di bambini morti nel 2020 più solo per la politica covid (solitamente si aggirano tra i 6 ed i 6,5 milioni all’anno). Perché questi bambini, queste centinaia di milioni di poveri che rischiano di morire di fame valgono meno di quello 0,03% della popolazione mondiale, notoriamente di età media assai avanzata, che nel 2020 è deceduta per covid? La risposta mi sembra ovvia: perché sono bambini senza soldi e perché sono troppi in un mondo già sovrappopolato, perché salvare la vita ai bambini dei paesi lontani non dà evidenza mediatica e aumenta il rischio di sovrappopolazione, mentre salvare gli anziani a casa nostra esalta i valori della nostra civiltà nella consapevolezza che nel giro di pochi anni (se non mesi) i miracolati se ne andranno comunque, esattamente così come da sempre ha stabilito madre natura. Per me non solo c’è un’ipocrisia di fondo, ma una vera incapacità di aprire gli occhi. Sbaglio? Me lo auguro di tutto cuore, e comunque presto lo scopriremo.

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