Archiviata con entusiasmi e festeggiamenti la finale del campionato europeo di calcio, gli strascichi della Super League proseguono, anche a varie settimane di distanza dallo scoppio deflagrante dell’iniziativa dei 12 top club, poi ridotti all’osso ai tre “irriducibili” della Juventus, del Real Madrid e del Barcellona, cioè i “colpevoli” di non aver fatto marcia indietro a differenza degli altri, soprattutto di quelli d’oltremanica (https://volerelaluna.it/societa/2021/04/21/la-globalizzazione-del-calcio-un-apartheid-al-rovescio/).
Il procedimento disciplinare dell’Uefa contro Juve, Real e Barca ‒ come ormai risaputo ‒ non è proseguito, essendo sopraggiunta la sospensione per via giudiziaria nonostante i vertici del calcio europeo non intendano gettare la spugna. Nei giorni scorsi quelle tre società hanno presentato un ricorso per togliere le sanzioni ai nove che avevano preferito abbandonare subito l’iniziativa patteggiando con il capo Uefa Čeferin. Bisogna infatti ricordare che, nonostante il ritorno sui propri passi, tutti e dodici i club sono sempre e ancora azionisti partecipanti alla holding spagnola collegata con il progetto medesimo. Come proseguirà la battaglia legale da qui all’inizio dei prossimi campionati nazionali nel mese di agosto? Anche a livello statale la tensione tra tali società e i vertici federali non è la più rosea: il presidente della Liga spagnola, Javier Tebas, si è recentemente scagliato in particolar modo contro Florentino Perez del top club madrileno, e ha quindi qualificato le società ribelli rimaste come dei naufraghi, definendo il modello della Super League come sbagliato nonché, in pratica, privo di futuro.
Discutendo sull’argomento, sono già state segnalate, con riferimento al basket statunitense, notizie su sponsorizzazioni di giocatori e giocatrici dei college universitari: le modifiche delle legislazioni di alcuni Stati dell’Unione consentiranno a tali atleti di ottenere dalla loro abilità sportiva degli accordi utili. Questi giocatori, dal primo luglio, possono sfruttare la propria immagine per moltiplicare gli utili e avere maggiore visibilità mediatica, principalmente attraverso diritti televisivi, mentre gli atenei possono reclutare un numero più elevato di sportivi, considerati a tutti gli effetti dei professionisti. Dal New York Times viene, inoltre, un freschissimo aggiornamento sulle pressioni politiche per dare la facoltà di estendere queste modifiche statali all’intero territorio nazionale nordamericano: dal Maine e dal Texas alla California e alle Hawaii.
Dobbiamo per forza rassegnarci a tale modello, anzi a questa visione dello sport senza reagire?
Il 26 maggio Massimo Fini ha scritto che la galassia calcistica è ostaggio del “dio denaro”, e che i club sono ridotti ad aziende che assorbono completamente la vita dei propri “dipendenti”, togliendogli ogni margine di interessi privati o comunque non allineati con i dettami societari, tanto che in televisione o sui social gli atleti, i tecnici e i dirigenti devono per forza dire o scrivere quanto deciso in precedenza dall’alto senza la possibilità di esprimere la propria opinione. Auguriamoci che non si sia già arrivati al punto di non ritorno, e che si possa compiere un passo indietro per tornare a una visione più popolare e naturale, insomma più umana, dei rapporti tra le persone e le istituzioni nel mondo calcistico-sportivo internazionale. Bisogna, in altre parole, garantire la continuazione ideale di quello che ‒ ricordiamolo tutti ‒ dovrebbe essere soprattutto e principalmente un gran bel gioco.