Sembra tanto tempo fa quando su queste pagine (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/03/07/e-permesso-immaginare-la-pace/) domandavo se era proprio proibito pensare in termini di pace, come unico modo di non far “scoppiare” la guerra. Come nelle vecchie filastrocche, la guerra è più che scoppiata. Ha invaso tutto. E tutti.
Strana esperienza: in fondo non c’è nulla, ma proprio nulla di nuovo. Come quando si vedono o vedevano film di guerra. O le cronache in diretta di Iraq, Yemen, Sudan e via elencando. Cambiano fotogrammi, inquadrature, colori: ma il contesto e i racconti profondi sono uguali: tra cinema e storia reale cambiano solo le immagini degli umani: comparse vs umani veri morti e feriti, profughi… Del resto non si sa nulla, al di là delle cronache fattuali, più o meno ripetute, e le tante opinioni e interpretazioni. È vero che l’Ucraina è più vicina (ma non tanto di più se soltanto si pensa alla Libia, a Gaza, alla Siria) e c’è di mezzo l’immaginario del nucleare, ma non tornano i conti: né concreti, né nell’immaginario. Nell’articolo citato avanzavo una proposta talmente banale da apparire scontata: «La follia di un Putin che rappresenta soprattutto se stesso e cancella il diritto in tutte le sue forme si dovrebbe confrontare, in questo scenario, non con un nemico, ma con un progetto di futuro, nel quale le armi siano a priori escluse, e si dia il tempo di sperimentare forme democratiche di decisione, senza pericolo di interferenze militari. La ovvietà della proposta è pari all’apparente ingenuità della sua percorribilità».
Forse la guerra “in” Ucraina toglie, come la pandemia, il velo a qualcosa: a una nostalgia dei “poteri” di giocare a essere nemici sul campo: sul serio: con armi vere: come negli antichi duelli: appena fuori le mura: per sapere chi è più bravo. Perché nel mondo globale queste emozioni non sono più personalizzabili: sono impersonali. Sistemiche. Hanno le cose e le merci come protagonisti. E i morti, tanti tanti tanti, per fame o migrazione o repressioni-guerre “locali”, hanno l’accortezza di essere presenti solo nei racconti, come al cinema. Era da tempo evidentemente che “giocare” alla guerra in diretta covava: il mercato delle armi tirava, ma aveva bisogno di una scossa, che togliesse le resistenze psicologiche. Ed è meraviglioso l’accordo pieno e rapido sulle spese/competizioni al riarmo dei governi, delle industrie: avere l’emozione di “mandare” armi: non di nascosto, travestite da doveri di difesa.
Il racconto si potrebbe trascinare: come si trascina la guerra (o meglio: le trattative segrete tra dittatori armati fino ai denti), senza sapere qual è l’oggetto reale del contendere, e ancor meno chi e quanto e come e se deve uscire come vincitore o vinto: e tra chi? Russia vs Ucraina? Non è questa, e tutti lo sappiamo o lo sanno, la partita vera. Che svela anche che l’intenzione è quella di ridare formalmente alla guerra un suo diritto di cittadinanza da tempo messo in dubbio, e ridotto a essere un capitolo del mercato, o un evento per tutte le periferie… Che fare? La risposta è vecchia: TINA. Come per l’economia negli anni Ottanta, che rese obbligatorio il colonialismo dei sempre più pochi, perché il capitalismo classico non era più sufficiente. TINA – quasi superfluo ricordarlo – è l’acronimo della frase in inglese: “there is no alternative”. In italiano significa “non c’è alternativa”. Un’espressione cara alla prima ministra conservatrice britannica Margaret Thatcher. Se è vero che le decisioni nelle democrazie vengono assunte secondo percorsi trasparenti e condivisi, la retorica di “non c’è alternativa” (TINA) solleva non pochi interrogativi. Nella storia recente, il metodo TINA ha mostrato di poter facilitare e giustificare decisioni politiche sgradevoli e normativamente complesse, ostacolando però le procedure democratiche e deliberative
La guerra “periferica-centrale” (è questa la novità) ha svelato (come TINA) che il fattore più critico è l’assenza di un’ipotesi forte, alternativa, motivata, documentata di pace. Che è diversa da “movimenti per” la pace. L’Europa, luogo di una guerra di non si sa chi contro chi, ma certo profondamente sua, per la storia e per il presente, è l’assenza più drammatica e riassuntiva: non per scelte politiche. Per tante, frammentate alleanze con tutti gli attori: e un bagaglio di guerre di interessi che la rendono paralitica nel pensiero prima ancora di immaginarsi in una trattativa. La guerra ha svelato che il fattore più critico è l’assenza di un’ipotesi forte, alternativa, motivata, documentata di pace.
TINA è la dichiarazione di guerra. Non l’accetterò mai. Speriamo di essere in tanti. Nei tanti quotidiani. Magari non discutendo, nelle diverse, piccole o grandi, sinistre ed etiche, chi è, come e se si è pacifisti, più o meno invisibili e impotenti. Prendendo eventualmente un obiettivo politico-economico, concreto per le sue implicazioni molto dirette: non accettare TINA per le spese militari: spostare le spese già previste ora per il riarmo, in Italia, all’ambiente, alle aree della sanità che escludono e non includono, allo ius soli.
L’accusa: Visto che governate con i soldi, e avete un potere enorme attraverso gli stessi, siete i maggiori colpevoli della maledetta GUERRA perché non avete saputo usarli per evitarla ed ora li adoperate soltanto per darne tutta la responsabilità al malvagio nemico!
Non accettare TINA vuol dire attuare la disobbedienza civile, non pagare per quello che riteniamo ingiusto, la percentuale di tasse che vengono destinate agli armamenti. E si può fare da ora, organizzando un Legal Team di difesa comune. Diamoci da fare, basta parole!