In principio era il kratos. La forza, nella sua bruta materialità, come criterio supremo di legittimazione del potere. Lo ricorda Simone Weil ne L’Iliade. Il poema della forza, sofferto ritratto di un’epoca che precede la nascita della polis, in cui i capi erano innanzitutto guerrieri, tenuti a confermare costantemente il loro valore sul campo di battaglia. Il processo che conduce, nel mondo greco, a un primo addomesticamento della forza, attraverso il passaggio dalla vendetta alla pena, inizia con Dracone, cui si deve il primo codice scritto di diritto penale. Le norme che contiene prescrivono pene terribili, ai nostri occhi, tanto che l’aggettivo “draconiano” è ancora oggi sinonimo di durezza e crudeltà, ma rappresentano pur sempre un passo avanti, in termini di certezza del diritto e di terzietà del giudizio, rispetto a un mondo in cui ciascuno si fa giustizia da sé e il debole si piega alla prepotenza del forte. Il passaggio dal kratos al nomos, dallo stato di natura al monopolio della forza legittima in capo a un’istituzione imparziale, non si è mai davvero compiuto a livello internazionale, anche se diversi tentativi sono stati fatti in questa direzione. L’ultimo, in ordine di tempo, risale alla fine della seconda guerra mondiale, quando, «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra», i «popoli delle Nazioni Unite» hanno dato vita a un’organizzazione finalizzata a «mantenere la pace e la sicurezza internazionale», sottraendo agli Stati quello che era stato il principale contrassegno della loro sovranità: lo ius ad bellum.
L’impotenza dell’ONU di fronte alla tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi ci sollecita oggi a riflettere sul significato di quel tentativo, sui suoi limiti e sull’ipotesi di un suo possibile rilancio. Dov’è l’ONU, oggi? Che cosa sta facendo per fermare l’aggressore e ripristinare la pace, al di là di alcuni pronunciamenti dal valore simbolico? Se lo è chiesto Zelensky, in un messaggio drammatico, culminato nella provocatoria richiesta di espellere la Russia dal Consiglio di sicurezza. E non possiamo non chiedercelo anche noi, in questi giorni. Che fine farà l’ONU, dopo questa terribile prova? Rimarrà anch’essa sepolta sotto le macerie della guerra?
Il fallimento cui oggi assistiamo può essere attribuito a una molteplicità di ragioni, non difficili da identificare. La prima – la più evidente – ha a che fare con un vizio di origine: la previsione che nel Consiglio di sicurezza, massimo organo esecutivo dell’organizzazione, siedano cinque membri permanenti dotati di potere di veto, che condanna alla paralisi decisionale tutte le volte in cui siano colpiti gli interessi di uno dei cinque paesi o dei loro protetti. Questo difetto costitutivo non si corregge certo espellendo la Russia dal Consiglio di sicurezza e lasciando che gli altri quattro “grandi” continuino a godere dell’impunità, ma con una autentica democratizzazione dell’ONU, di cui da tempo si parla. Allo stesso modo, il rilancio del diritto penale internazionale non avverrà affidando a un tribunale ad hoc il compito di giudicare i crimini di guerra commessi dai Russi, ma solo a condizione che le grandi potenze – tutte, a partire dagli Stati Uniti – accettino finalmente di sottoporsi alla giurisdizione della Corte penale internazionale.
Una seconda ragione dell’impotenza dell’ONU risiede nella non piena attuazione di quanto contemplato dalla sua Carta istitutiva. Tra le disposizioni che non sono mai state attuate ci sono quelle previste dal capitolo VII, riguardante le azioni da mettere in campo in caso di «minacce alla pace, violazioni della pace, aggressioni». In base all’articolo 51, gli Stati mantengono «il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite», ma solo «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Misure che contemplano una serie di strumenti pacifici, dalle raccomandazioni all’interruzione dei rapporti diplomatici al blocco economico, esauriti i quali è possibile decidere una «azione coercitiva internazionale» – non una guerra –, la cui «direzione strategica» dovrebbe essere affidata a un Comitato di stato maggiore appositamente creato e posto sotto l’autorità del Consiglio. Nella realtà il Comitato di stato maggiore non ha mai visto la luce. Nei casi in cui il Consiglio di sicurezza ha deliberato «azioni coercitive internazionali», come quella contro l’Iraq nel 1991, le ha appaltate a singoli Stati o a coalizioni tra Stati, che hanno intrapreso vere e proprie guerre, usando armi di distruzione di massa. Guerre “in nome dell’ONU” che contraddicevano il fine istitutivo dell’organizzazione, nata per mettere al bando la guerra, non per farla in proprio o per fornire copertura giuridica al bellicismo degli Stati. Bisogna peraltro aggiungere che distinguere un’«azione coercitiva internazionale», o un’«operazione di polizia internazionale», come viene spesso chiamata, da una vera e propria guerra non è facile. Le prime dovrebbero comportare un uso limitato e regolato della forza, nella misura strettamente necessaria a ripristinare la pace, e non a conseguire la “vittoria”. Ma il confine non è facile da tracciare. E poi, come si può immaginare di riuscire a fermare una superpotenza in possesso di micidiali armi di distruzione di massa con meri strumenti di “polizia internazionale”? Di quali ordigni dovrebbe, a sua volta, dotarsi, un ipotetico contingente militare guidato dal Comitato di stato maggiore dell’ONU, per svolgere efficacemente i suoi compiti? Carri armati, bombe, missili?
Evidentemente, non è questo il punto. Se, sul piano del diritto interno, il monopolio della forza legittima in capo allo Stato ha richiesto per realizzarsi la rinuncia, da parte dei cittadini, al diritto di farsi giustizia da soli, è chiaro che anche la costituzione di un’autorità sovranazionale in grado di far rispettare il divieto della guerra richiede la disponibilità degli Stati a disfarsi dei loro eserciti e dei loro arsenali. La pace si ottiene disarmando gli Stati, non armando l’ONU. E, tanto meno, armando la NATO, organizzazione di parte, priva dell’autorità e dell’autorevolezza per ergersi a gendarme del mondo. Del resto, la neutralità e la demilitarizzazione che vengono oggi chieste all’Ucraina assumono una connotazione non punitiva solo nel contesto di un più generale processo di disarmo, che dovrebbe riguardare tanto la Russia quanto i paesi della NATO. Iniziando dalle armi atomiche, del cui utilizzo si torna oggi a discettare con irresponsabile disinvoltura. Nel 2019 è stato Trump a ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dal Trattato sulle armi nucleari intermedie firmato a suo tempo da Gorbaciov e Reagan. Una decisione sconsiderata, che ha innescato una corsa generalizzata al riarmo non estranea alle tensioni alle origini dell’attuale conflitto.
Bisognerebbe andare in una direzione diametralmente opposta. Nel suo Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2021), Luigi Ferrajoli propone di qualificare come «beni illeciti», di cui andrebbe vietata la produzione, il commercio e la detenzione, le armi nucleari e tutte le «armi di offesa e di morte» diverse da quelle «necessarie all’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza», il cui monopolio andrebbe riservato alle forze di polizia, locali, statali e globali. Un’utopia? Sì, ma di quel genere di utopie necessarie al progresso dell’umanità. Anche perché qual è l’alternativa? Un mondo sempre più armato e sempre meno sicuro, con la catastrofe nucleare in agguato, anche solo per un incidente o per l’ascesa al potere di un pazzo o un paranoico, sempre possibile anche nel “mondo libero”. Davvero è il momento di fermarsi e di invertire la rotta.
Articolo denso che fa molto riflettere. A mio avviso, però, ci lascia nella stessa cupa disperazione nella quale siamo immersi da due mesi, dall’inizio della guerra in Ucraina. Da un lato infatti l’autrice riconosce che l’Onu non è in grado di garantire la sicurezza degli stati (aggrediti). Dall’altro propone che gli stati si disarmino, cioè si privino di quegli strumenti per garantirsi la sicurezza che l’Onu non sa garantire. Del resto, l’autrice ammette che la sua proposta è un’utopia, e come tale un mezzo – immagino – qui ed ora non utilizzabile per porre fine alla guerra. P.S. Nota a margine. L’articolo riprende in considerazione – uso le parole di Bobbio – il pacifismo “istituzionale” (Onu), e quello “strumentale” (disarmo), e non fa menzione delle azioni nonviolente che in questo sito sono state suggerite, insieme alle trattative, per tentare di spegnere la guerra.