Serve un sogno da condividere

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Nel linguaggio politico è utile tenere separati i significati di utopia e sogno. Comunemente si parla di utopia nel senso di un progetto che non può avere attuazione: la formulazione di un’ideale organizzazione sociale “destinata a non realizzarsi sul piano istituzionale, ma avente ugualmente funzione stimolatrice nei riguardi dell’azione politica”. Anche dei sogni si può parlare come speranze prive di fondamento, ma molto più interessante è l’accezione del sogno quale desiderio capace di modificare la realtà o, quantomeno, come una visione in cui si ripone fiducia. Diversamente dall’utopia, che in sostanza propone un modello astratto di funzionamento della società, il sogno contiene un’idea di piacere anche individuale: un possibile percorso di avvicinamento alla soddisfazione e alla contentezza, che si può mettere in comune con gli altri. Anche la collocazione temporale è diversa: l’utopia riguarda un futuro indefinito o genericamente lontano, mentre il sogno si può concretizzare da domani e consolidare nel tempo. Non è forse a partire da un sogno che scienziati, artisti e campioni sportivi affrontano l’impegno e i sacrifici necessari per raggiungere risultati importanti? La maggior parte delle persone compie scelte fondamentali in base alla propria inclinazione nel formulare sogni, o all’impossibilità di farlo. La Cenerentola di Walt Disney lo spiega ai bambini cantando così: «I sogni son desideri di felicità. Nel sonno non hai pensieri; ti esprimi con sincerità».

Anche gli schieramenti politici, in sostanza, si confrontano in base alla capacità, o meno, di proporre sogni. Ma oggi su tutti, in modi diversi, pesa un ostacolo al quale, anche nella Sinistra, siamo arrivati impreparati, nonostante gli allarmi lanciati da tanti studiosi per più di cinquant’anni. Lo potremmo chiamare la “grande minaccia”, data dalla combinazione tra cambiamento climatico, esaurimento delle risorse naturali e incremento demografico nei Paesi più poveri. Ogni area politica tenta di dare risposte al proprio elettorato, con promesse ampiamente differenziate, ma che, in qualche modo, contengono una reazione alla “grande minaccia”, compresa la sua negazione.

I sogni proposti dalle Destre sono talmente miseri che conviene chiamarli semplicemente scappatoie. Il voto alle Destre da parte di persone impoverite e sfruttate è spiegabile anche con la rinuncia all’idea di una vita complessivamente migliore. In loro si fa strada la convinzione che, in un mondo alla deriva dominato da fattori sostanzialmente immodificabili, i margini di manovra sono così limitati che l’unica possibilità ancora aperta è “si salvi chi può”. Trent’anni fa, il maestro D’Orta, raccogliendo in un libro i temi di bambini napoletani, scelse per titolo la frase di uno di loro, che rappresenta drammaticamente un intero mondo rinunciatario: «Io speriamo che me la cavo». Se tutto ciò che io posso fare è sperare di cavarmela, sarò indotto a cercare facili scorciatoie: un capo autoritario, l’individuazione di nemici potenziali da combattere e di presunti valori tradizionali da contrapporre al cambiamento che spaventa. Anche mettersi al servizio dei più forti può garantire qualche piccolo privilegio: lo si può fare arruolandosi in uno dei vari corpi armati istituzionali, ma anche nelle ampie formazioni della criminalità organizzata o della reazione violenta. In sostanza, è proprio l’uso della forza che viene sostenuto per difendersi dalla “grande minaccia”: che i più forti si salvino e i deboli si arrangino.

Se ci spostiamo verso il Centrodestra, che si dichiara democratico, ci imbattiamo in pseudosogni, sostanzialmente indotti. Qui domina l’idea che l’arricchimento, cioè il denaro, sia la soluzione di tutti i problemi: è il regno della crescita senza limiti e del consumismo. Ovviamente si tratta di una soluzione individuale, perché nemmeno i più ingenui immaginano che ci si possa arricchire tutti quanti. E quelli del centrodestra sono tutt’altro che ingenui! Infatti, anche loro propongono scorciatoie: pagare meno tasse (o evaderle), adattare l’amministrazione della giustizia ai propri interessi, lasciare nel mercato mano libera ai più furbi. Chi è furbo riuscirà, prima o poi, a comprarsi un’auto di lusso, una villa al mare e, visto che tutto è in vendita, qualsiasi altra cosa. I ricchi, che già oggi consumano e inquinano in proporzione enormemente maggiore agli altri, continueranno a farlo, rinserrandosi nelle aree meglio vivibili e protette del pianeta. Dalla forza delle armi siamo passati alla forza dei soldi, non meno violenta.

Anche dal Centro, sedicente progressista, non si possono spiccare voli entusiasmanti perché, per costoro, il capitalismo, unica forma di economia possibile, ha le sue rigide regole: questo è il mercato, cari signori e signore! Dunque, i timidi sogni proposti si limitano a qualche modesto intervento sui diritti civili, sempre che il Vaticano sia d’accordo, naturalmente… Però sul politicamente corretto non si discute: quindi, attenti a come parlate! Sui temi ambientali i buoni propositi si sprecano ma, a parte la fiducia ribadita nella innovazione verde e nella buona volontà dei cristiani, non c’è nessuna vera visione di un futuro diverso. Ma pazienza… in ogni caso il paradiso aspetta chi ha fede.

E la Sinistra è ancora capace di proporre sogni veri? Nel secolo scorso, molti lavoratori accettavano un’esistenza di lotte e sacrifici perché erano sorretti dall’idea di garantire ai propri figli, attraverso l’istruzione, un innalzamento sociale e la serenità economica. Il legame tra le generazioni per costruire un futuro migliore oggi appare interrotto. Una delle caratteristiche della vecchiaia è la rinuncia a sognare; dunque, una Sinistra incapace di farlo è irrimediabilmente vecchia e per nulla attraente per i giovani. Fortunatamente i sognatori sono ancora molti nella grande area civile della “sinistra diffusa”: persone che immaginano di raggiungere la propria contentezza costruendo qualcosa di utile per la collettività. Pensiamo a chi partecipa alle grandi organizzazioni umanitarie, ma anche a chi, nel proprio campo di competenza o sul proprio territorio, si impegna a trovare soluzioni per i problemi della comunità. Pensiamo a chi lotta, sul luogo di lavoro e in piazza, e a chi anima le manifestazioni di protesta per i diritti e per il futuro dell’umanità.

Quello che manca è la capacità, da parte di quel poco di Sinistra che sopravvive, di metterli insieme per costruire, con la politica, un grande sogno realizzabile.

A questo punto, occorre introdurre una distinzione tra sogni da condividere e sogni condivisi. I sogni non nascono già condivisi: qualcuno li formula, da solo o in un gruppo coeso, sapendo interpretare e mettere a fuoco bisogni e aspirazioni delle maggioranze. È, con un po’ di approssimazione, il ruolo degli intellettuali organici al proletariato, spiegato da Gramsci. Dunque, si costruisce un sogno da condividere e poi lo si propone con forza agli altri, per farlo diventare un sogno condiviso. Quando Martin Luther King, nell’agosto del 1963, pronunciò il suo famoso discorso di fronte a una grande folla confluita a Washinton D.C. per protestare contro la segregazione razziale, non disse: «Adesso vi leggo il mio programma in venti punti» e nemmeno: «Avrei un bel progetto in mente». Egli coinvolse i presenti ripetendo, per ben otto volte: «I have a dream». Il suo potente messaggio fu, in sostanza: io ho un grande sogno e, se lo riconoscete come vostro, ve lo affido perché, con le lotte, tutti insieme lo possiamo trasformare in conquiste reali. In quel caso, però, l’obiettivo e il percorso erano chiari: rimuovere ingiustizie secolari del tutto evidenti e «tradurre in realtà le promesse della democrazia».

La Sinistra oggi ha chiaro il sogno da proporre e, soprattutto, ha idea di come realizzarlo? Come ci spiega Cenerentola, per sognare bene bisogna avere la mente sgombra: «non hai pensieri; ti esprimi con sincerità». Tanti anni fa, nelle manifestazioni giovanili, si reclamava “l’immaginazione al potere”: è, più o meno, la stessa idea. Ma per far lavorare la nostra immaginazione alla costruzione di una società migliore, come allora suggeriva Marcuse (https://losbuffo.com/2018/05/18/herbert-marcuse-e-limmaginazione-al-potere/), dobbiamo innanzitutto liberarci da un mostro bicefalo, che il capitalismo e i poteri costituiti hanno messo a guardia della gabbia culturale in cui siamo costretti. Le due teste, a volte ringhianti e a volte falsamente sorridenti, impersonificano due colonne del nostro vivere sociale: l’economia come oggi è intesa, con la sua presunzione di essere scienza, e l’innovazione, col suo potente retroterra di ricerca, scienza e tecnologia. Questi due motori, ormai guasti, devono essere smontati e ricomposti per farli funzionare a dovere, nell’interesse collettivo: si potrebbe dire che sono concetti da decostruire. Finché si continuerà ad accettare l’idea, dominante e inconsapevolmente diffusa, che economia e innovazione funzionano così perché non può essere altrimenti, come se fossero leggi della fisica, anziché costruzioni umane (di pochi umani), lo spazio per il cambiamento vero sarà limitatissimo. Si tratta di una battaglia difficile, irta di trabocchetti, contro avversari molto abili, ma indispensabile per costruire una risposta concreta alla “grande minaccia”. Una risposta completamente diversa da “Io speriamo che me la cavo”, ma anche da “teniamoci stretti e limitiamo i danni”.

L’interpretazione oggi diffusa dell’economia la definisce come la scienza che studia gli scambi, cioè, a cascata, il mercato e i flussi di denaro, all’interno dello schema capitalistico dominante. Dunque, i sedicenti economisti si occupano principalmente di tassi di interesse, valori azionari, potere d’acquisto delle monete. E regolarmente sbagliano le loro previsioni, come è avvenuto in tutte le grandi crisi recenti. Ma come può avere dignità di scienza una pseudodisciplina che, in pratica, cerca di insegnare come giocare alla roulette, dove qualcuno vince e tutti gli altri perdono? Se cerchiamo una definizione più dignitosa, la troviamo anche nei classici che, in sostanza, affermano: l’economia è quella disciplina che studia come ottimizzare (migliorare al massimo) l’utilizzo delle risorse disponibili per soddisfare i bisogni delle persone (tutte le persone, ovviamente), in un arco di tempo medio e lungo, proiettato verso il futuro. Questa, che si avvicina molto di più all’idea di scienza, si colloca all’incrocio di tante aree del sapere: da quelle che studiano quali e quante risorse naturali e umane possiamo utilizzare (un approccio, quindi, totalmente ecologico), a quelle che cercano di seguire l’evoluzione dei bisogni fondamentali e individuali: il compito di varie scienze sociali e umane. Un’impostazione di questo tipo riconsegna alla politica tutto il suo spazio di progettazione e gestione dell’interesse collettivo, liberandola dai vincoli artificiosamente imposti dai Soloni contemporanei dell’economia. Soltanto riuscendo a pensare all’economia come “un’altra cosa” (e senza dimenticare Marx, naturalmente) possiamo immaginare la “bella rivoluzione” del nostro modo di vivere e, soprattutto, di convivere.

Anche per l’innovazione viene in mente un modo diverso di pensare: “Think different” era lo slogan con cui Steve Jobs riusciva ad affascinare milioni di persone. Quando, insieme ad amici, alla fine degli anni Settanta, creò il Macintosh Apple, la grande novità fu un’interfaccia amichevole, che facilitò enormemente la diffusione del personal computer. Il computer, la rete informatica e tante altre innovazioni basate sull’elettronica e sui sistemi digitali crebbero rapidamente, alla fine del Novecento, come strumenti adatti a facilitare il lavoro e la vita delle persone. Ma in seguito, guidata dalle logiche capitalistiche, quest’area dello sviluppo tecnologico, come svariate altre nella storia recente, ha privilegiato una strada diversa: invece di aiutare le persone ha cercato di sostituirle, condizionarle e controllarle. I servizi apparentemente gratuiti del World Wide Web collegano ormai miliardi di utenti e contribuiscono alla rapidissima creazione di ricchezze personali stratosferiche. È davvero sorprendente che le persone non si chiedano come fanno ad arricchirsi questi generosissimi gestori dei browser, dei social media, delle mappe interattive e delle vendite on line. Come si dice, “a caval donato…”; ma questi doni stanno condizionando le menti e le nostre vite. Stanno soppiantando interi comparti economici, in nome dello sfruttamento estremo. La rete informatica si sta trasformando: da strumento di libera partecipazione e di intelligenza collettiva a strumento di appiattimento e stupidità diffusa. A trainare questa innovazione di rapina ci sono anche il settore degli armamenti, quello farmaceutico e, grande novità, quello della green economy, che convive bellamente con le attività più distruttive per l’ambiente. Intanto, lo sviluppo senza controlli dell’intelligenza artificiale stende nuove ombre oscure sul futuro dell’umanità.

Con la rinuncia a orientare la ricerca scientifica, e l’innovazione che ne consegue, verso l’interesse generale, assistiamo, come per l’economia, all’inversione di ruolo tra mezzi e fini. Il denaro diventa il fine della sedicente economia, e le nuove tecnologie si giustificano in sé stesse, pretendendo di essere utili per definizione. Ecco che il futuro si autocostruisce, rendendo ingenuo e vano ogni sogno. Si può resistere, o piuttosto attaccare, soltanto mostrando un’alternativa possibile: bisogna raccontare, in modo convincente, che la vita può essere bella (o quantomeno soddisfacente) rimettendo al centro il rapporto con la natura e con le altre persone. I bisogni fondamentali (cibo, salute, istruzione, casa …) possono essere soddisfatti con un impatto modesto sull’ambiente, mentre alle aspirazioni individuali si può rispondere in tanti modi, in gran parte del tutto gratuiti, basati sulla partecipazione, la libertà e la creatività. La bella rivoluzione ha bisogno d’immaginazione.

Gli autori

Franco Guaschino

Franco Guaschino, laureato in Scienze Politiche, ha lavorato soprattutto nella comunicazione visiva. Prima fotografo, poi regista e produttore, ha realizzato documentari, filmati promozionali e qualche opera di finzione. Negli ultimi dieci anni di attività si è dedicato alle montagne, nel quadro di quello che si chiamava “Laboratorio dello sviluppo sostenibile”. Da qualche anno in pensione, vive in una casa in mezzo ai boschi, sulla montagna sopra Torre Pellice.

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2 Comments on “Serve un sogno da condividere”

  1. Impeccabile, esatto, senza sbavatura alcuna: lo affermo forse perché coincide con lo stile di vita che ho scelto di condurre… purtroppo in solitaria.

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