Ida Dominijanni è giornalista, saggista e filosofa. Dal 1982 al 2012 ha lavorato al quotidiano “il manifesto”, dapprima alla sezione culturale e poi come notista politica ed editorialista. È stata docente di filosofia sociale presso l’Università Roma Tre. Collabora attualmente con il Centro per la Riforma dello Stato (CRS). Ha scritto, tra l’altro, “Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi” (Ediesse, 2014).
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I femminicidi non sono un fatto nuovo nella lunga storia del patriarcato. Ma ne sono un sintomo. Finché le donne sopportavano in silenzio, non c’era bisogno di sopprimerle, bastava un ceffone per tenerle in riga. Oggi la libertà femminile e la fine del consenso femminile al dominio maschile hanno inferto una ferita insanabile al patriarcato, che proprio perché è ferito e destabilizzato reagisce con maggiore violenza
Nella visita in Israele della settimana scorsa, Biden ha parzialmente smentito la visione dello scontro di civiltà in atto ma 24 ore dopo, nel discorso alla Nazione dallo studio ovale, è tornato sui suoi passi confermando la strategia adottata dopo l’11 settembre e il ruolo degli Stati Uniti come perno dell’ordine mondiale. Senza cogliere la necessità di cambiamento imposta dai fallimenti di questi anni.
Tre le mosse di Meloni per anestetizzare l’antifascismo: equiparare nazifascismo e comunismo, identificare l’antifascismo con alcune scellerate derive degli anni ‘70, derubricare il fascismo a un incidente di percorso nella storia della “nazione”. È una strategia spregiudicata che sarebbe destinata all’insuccesso se non avesse una sponda nella stampa mainstream e nella retorica dell’impegno nella guerra in Ucraina.
L’assoluzione di Berlusconi nel processo Ruby ter per un vizio di forma chiude il caso giudiziario, almeno in primo grado. Resta aperto, al di là degli schiamazzi e delle polemiche, il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce: non solo una sequela di scandali, ma l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e denaro, emblematico del più complessivo sistema di potere di quegli anni.
È toccato a Liliana Segre investire della presidenza del Senato Ignazio La Russa. Ma il suo discorso ha fissato alcuni punti fermi: l’ancoraggio della vita pubblica alla Costituzione («testamento di centomila caduti nella lotta per la libertà»), da attuare più che da modificare, e la celebrazione non rituale delle ricorrenze «scolpite nel grande libro della storia patria», il 25 aprile, il 1 maggio, il 2 giugno.
La campagna elettorale appena conclusa è stata caratterizzata dalla rimozione di elementi decisivi: la posta in gioco reale della guerra in Ucraina, la fine degli assetti ideologici e geopolitici novecenteschi, le trasformazioni indotte dalla pandemia nella politica e nell’immaginario collettivo. Sono rimozioni che la probabile deriva verso il peggio ci impedirà di eludere.
Il governo Draghi e l’unità nazionale non hanno retto al sovrapporsi delle emergenze. La ragione, al di là delle cause occasionali, è evidente: tutti – compreso Draghi – sono terrorizzati dall’autunno che ci aspetta e nessuno sa come gestire un tasso di inflazione che mette in mora i fondamentali delle (rovinose) politiche economiche degli ultimi decenni.
Catanzaro, per una volta, fa notizia per la brillante vittoria nelle elezioni amministrative della coalizione di centrosinistra guidata da Nicola Fiorita. Una vittoria della strategia del “campo largo” di Enrico Letta? Sì e no. Piuttosto la vittoria di un diverso modo di fare politica nel territorio da parte di una generazione allevata al comandamento neoliberale del fai-da-te che alla fine ha imparato a fare da sé anche in politica.
Ogni guerra, negli ultimi decenni, ha comportato la militarizzazione e la polarizzazione del dibattito pubblico: o con me o contro di me, o con la democrazia o con il dittatore di turno, o con l’Occidente o con i fondamentalisti. Ma mai come in questi mesi di guerra in Ucraina l’arruolamento delle opinioni conformi e la scomunica di quelle difformi ha travalicato il limite della decenza.
Dal compattamento europeo sul nuovo scontro di civiltà quel che resta della nostra democrazia può uscirne devastato. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.