Ultimamente i problemi connessi con il mercato dell’energia hanno occupato la scena del dibattito politico relegando in posizione subordinata molte altre questioni, per nulla meno importanti.
Entrando direttamente in tema senza troppi preamboli dico subito che l’impennata dei prezzi dell’energia e quindi delle bollette de “gli italiani”, come dice qualcuno, non è dovuta a una improvvisa carenza della materia prima, bensì a ragioni “geopolitiche”, attuali o temute, e ad annesse operazioni speculative sui mercati finanziari. Insomma non è che manchino il gas o il petrolio, ma ci sono di mezzo la questione Ucraina e una rapida ripresa delle attività produttive correlata con la progressiva sdrammatizzazione del Covid, per lo meno nei paesi sviluppati. Insomma ci sono di mezzo svariate vicende umane che riguardano (non vorrei banalizzare) i rapporti di scambio tra umani. Questi ultimi, con buona pace dei seguaci della sacra ideologia del mercato e dell’egoismo individuale motore del progresso, sono essenzialmente convenzionali, cioè, in altri termini, umanamente modificabili, se ci si convince che sia il caso di farlo. Diversa è la storia dei vincoli fisici i quali al contrario non sono fungibili o modificabili da “i mercati”, le istituzioni, le borse e così via.
Che le fonti di energia tradizionali, e cioè in primo luogo quelle fossili, siano limitate non è certo una scoperta del momento: il petrolio, se si andasse avanti col tasso di consumo crescente attuale, durerebbe qualche decennio, il metano non sta molto meglio e il carbone basterebbe per un paio di secoli. Non solo ma il costo di una unità di energia ricavata da queste fonti aumenterebbe fino a rendere improduttivo sfruttarle. Non mi riferisco al prezzo monetario che è tutto umano, bensì al costo materiale cioè alla quantità di energia che occorre spendere per ricavare una unità di energia utile, ossia all’EROEI (Energy Return On Energy Invested). Già ora i nuovi giacimenti che si stanno sfruttando o si sfrutterebbero nel futuro sono sempre più energeticamente costosi: si trovano sotto i mari oppure in strati rocciosi che richiedono il fracking (fratturazione della roccia ottenuta iniettando liquidi in pressione) o sotto forma di shale oil (aderente a scisti bituminosi) o cose simili. Ora, poi, dopo decenni di negazionismo, si è preso anche atto che l’uso di queste fonti comporta una pesante trasformazione del sistema climatico planetario già in atto, con la prospettiva, se non si agisce più che in fretta, di un collasso globale dai contorni sostanzialmente imprevedibili, ma tali da scompaginare in maniera drammatica le società umane a scala mondiale. Prima ancora dei disastri ambientali verso cui si sta correndo esploderebbero le tensioni interne ed esterne agli stati e si scivolerebbe in uno stato di guerra di tutti contro tutti di cui qualche prodromo già si intravede.
Tornando al mondo fisico, oggi siamo, in definitiva, in uno stato di assoluta emergenza che comporta (almeno se fossimo esseri razionali e non fossimo prigionieri del qui e ora) il mettere in pratica con la massima urgenza azioni che producano drastiche riduzioni delle nostre emissioni di gas climalteranti (GHG). Come più volte ricordato, ciò equivale ad abbattere tutti i processi di combustione alimentati da combustibili fossili. Il metano è un combustibile fossile (per la verità c’è anche un po’ di metano proveniente dai rifiuti organici che quotidianamente produciamo in quantità, ma questo è un discorso che non posso approfondire qui). Il metano è più efficiente degli altri fossili nella produzione di energia e non genera cose come polveri e altri inquinanti ma alimenta anch’esso l’effetto serra che è alla base del mutamento climatico.
Dunque perché l’Unione Europea inserisce il metano (quello fossile) nella sua “tassonomia verde” e il Governo italiano vuole riavviare le trivellazioni sul territorio nazionale e nell’Adriatico? Ricordando che questa ormai famigerata tassonomia è essenzialmente un modo per qualificare come “verdi”, con la benedizione europea, delle operazioni finanziarie, piuttosto che non delle specifiche opere, diciamo che la preoccupazione dominante, prima di qualsiasi altra cosa, è quella di salvaguardare, contro tutti e contro tutto (natura inclusa) i meccanismi dell’economia tradizionale, per insostenibile che sia.
Di fronte alle obiezioni legate alla fisica dell’effetto serra, i decisori rispondono che le trasformazioni debbono essere graduali (e indubbiamente se avessimo cominciato cinquant’anni fa, quando il problema venne sollevato, il processo sarebbe stato graduale) e che le rinnovabili non sono da sole in grado di soddisfare le nostre necessità. Questa seconda affermazione non è supportata da dati e ragionamenti e viene presentata come “ovvia” (tipico di tutti i sistemi ideologici). In realtà, pensando al sole, si vede che sull’Italia piove annualmente una energia complessiva che è più di 300 volte il fabbisogno nazionale. Naturalmente qualunque processo di conversione dell’energia dalla forma primaria a quella poi utilizzata ha un rendimento, ovviamente minore di uno; nel caso dei pannelli fotovoltaici, ad esempio, il rendimento si aggira intorno al 20%. Diciamo quindi che l’energia producibile a partire da quella del sole sarebbe più di 60 volte il fabbisogno nazionale; per coprire interamente quest’ultimo bisognerebbe insomma impegnare circa l’1,6% della superficie nazionale. È tanto? È poco? Consideriamo, che, secondo i dati di ISPRA, circa il 7% della superficie italiana è già permanentemente coperto da costruzioni e infrastrutture varie, il che per inciso concorre ad aggravare la fragilità climatica del paese: le aree da adibire alla produzione di energia rinnovabile dovrebbero stare all’interno di questa quota. Consideriamo poi anche che nel caso delle rinnovabili si ha generalmente a che fare con tecnologie a questa data consolidate anche se in evoluzione verso il meglio: non c’è bisogno di pensare a “quarte generazioni” di là da venire. E dunque? Quello che manca è la decisione di investire in questo settore i molti miliardi che invece la mano pubblica si orienta a destinare al sostegno del business as usual tanto nel settore energetico che in quello dei consumi.
Queste considerazioni valgono anche per il nucleare. Nel merito di quest’ultimo ci siamo già espressi; ciò che si può qui richiamare è che l’esigenza che Commissione e Consiglio della UE ritengono di dover soddisfare è quella di agevolare i finanziamenti verso un settore industriale e finanziario altrimenti in difficoltà. Électricité De France (EDF), che appartiene allo Stato francese e controlla AREVA (la società francese che costruisce centrali nucleari), ha debiti per una cinquantina di miliardi o poco meno e dovrà presto fronteggiare rilevantissimi costi per lo smantellamento della maggior parte delle centrali francesi che sono prossime a completare la loro vita utile: per questo ha bisogno di un rilancio del nucleare che le consenta di vendere nuove centrali in giro. D’altra parte un po’ ovunque il nucleare, per via della valenza politico-militare del settore, vede direttamente implicati gli stati e si sviluppa con un sostanziale coinvolgimento dei capitali pubblici; gli stati a loro volta però hanno bisogno di sostanziali apporti di capitali privati che possono acquisire solo a fronte di sostanziali garanzie di redditività che il mitico mercato non sarebbe in grado di offrire. L’ambiente e la sostenibilità non c’entrano assolutamente nulla, ma una vernice green è ritenuta utile per intorbidare le acque e far trangugiare la pillola all’opinione pubblica.