Nella nottata, costruire comunità

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Tante manifestazioni contro le minacce di chiusura, anche nella mia città, Firenze. Da quelle delle categorie ‒ tassisti, ristoratori, artisti ‒ a quelle più indecifrabili, convocate senza nessuna convocazione, un po’ riot urbano, un po’ rito spettacolare, un po’ espressione di un malessere oscuro quanto diffuso. E poi quelle più tradizionalmente politiche, di “sinistra”: bandiere rosse, rivendicazioni sociali, reddito, casa, lavoro ‒ «la crisi devono pagarla i ricchi».

Però c’è qualcosa che non va, di fondo.

Quello che si muove più o meno spontaneamente porta addosso tutti i segni della devastazione materiale e simbolica del neoliberismo. Frammentazione, rabbia, egoismi, paure. Una polverizzazione narrativa della società, la sofferenza sociale che non si racconta più in una storia collettiva di possibile liberazione. Non «se ne sorte insieme», come diceva don Milani. È come se la crisi del sistema avesse prodotto una micro conflittualità a sua immagine e somiglianza. Una protesta che è collettiva solo in quanto somma tutti i particolarismi. Tutti partono da sé, e lì rimangono. Ogni segmento sociale chiede riconoscimento e “ristoro”, e lo chiede allo Stato in forma rabbiosa quanto subalterna: è del Governo la politica, odiata e invocata allo stesso tempo.

La cosiddetta sinistra o è mani e piedi invischiata nell’emergenza e nel Governo, fino a sparire dai radar della percezione popolare, oppure (fuori) ripropone i propri massimi sistemi, una lettura di classe dopo la lotta di classe, gli obiettivi di sempre. Sacrosanti, ma probabilmente archiviati da coloro che si vorrebbero rappresentare come un’astratta riproposizione ideologica, quando va bene libro dei sogni, impossibile da realizzare. Tutto comunque fuori fase rispetto alla situazione e alla società attuale.

Certo l’emergenza è figlia di decenni di neoliberismo: tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, esplosione delle disuguaglianze, precarizzazione del lavoro e della vita. Sanità pubblica abbandonata, scuola e trasporti pure. E il Governo da maggio non ne ha azzeccata una, tutto concentrato sui mitici soldi del recovery fund. Da mesi si parla di emergenza ma si discute di banchi con rotelle, di lockdown alle 21 o alle 22, di parrucchieri aperti o chiusi, le chiese sì i teatri no. E nessuno fra Governo e regioni che vuole assumersi le responsabilità delle decisioni.

E tuttavia l’emergenza esiste. Le  persone riempiono gli ospedali, e ancora muoiono. Sole, ridotte a numero in un bollettino. Escono da casa in ambulanza, accompagnate da bianchi fantasmi mascherati, e tornano in forma di SMS – modello telegramma in tempo di guerra.

Non vale dire che lo sport è vita, che la cultura è nutrimento dell’anima, che la salute è anche socializzazione e si ha bisogno delle notti magiche. Era vero anche in primavera, per tutte e tutti, ma nessuno lo diceva perché si percepiva il pericolo e la necessità di una risposta comune. Adesso di nuovo, malgrado la depressione e la rabbia generale, occorre fare qualcosa che serva a fermare la curva dei contagi e soprattutto dei ricoveri. E va fatto ora.

Dire che se stanno aperte le fabbriche allora anche pub, palestre, cinema, piscine – cioè tutto – è non vedere la morte o considerarla morte degli altri. Casomai si devono chiudere anche le fabbriche, se non si vuole trasformare l’Italia in una immensa Taranto ammalata di Ilva. Lavora e produci, anche se uccidi il mondo che hai dintorno, e dentro.

Nemmeno la proposta operativa per i prossimi 15 giorni può essere l’abbattimento del capitalismo e la rivoluzione socialista, anche se darebbero una bella mano. Una cosa di sinistra sarebbe ripartire da noi stessi, dall’essere polis e comunità, società politica ed etica. Che non dice «se ci chiudi ci paghi», ma «chiudiamo» e «abbiamo diritto» a un reddito di base, universale. Non come risarcimento per l’obbedienza, ma per l’uguaglianza e la dignità delle persone. Ed è possibile se una radicale redistribuzione del reddito e della ricchezza spostasse risorse da chi non ha sofferto economicamente nella crisi (o non ha sofferto mai) a chi invece perde il lavoro e ha bisogno d’aiuto. Se siamo capaci di riconoscere la nostra comunità, sofferente; la nostra fragilità di esseri umani – e ce ne prendiamo cura.

Per difendere e rilanciare lo Stato sociale, la sanità pubblica, il bene comune, è bene ripartire dalla socialità in questa unhappy hour, la nottata che ha da passare. Non dalla somma dei singoli ma da ciò che di singolare sta fra le persone, il tessuto politico di umanità. Dal mutuo soccorso, dalle reti che ricostruiscono lo spazio pubblico di una comunità. Qui la sinistra potrebbe anche provare a fare vivere i suoi valori senza ridurli a prediche, a sogni o a nostalgie. Nel cuore della disgregazione neoliberista, fare società sarebbe il nostro fare politica. E potremmo tornare anche noi in forma di SMS.

 

Gli autori

Andrea Bagni

Già docente di italiano e storia all'istituto Gramsci-Keynes di Prato. Vicedirettore della rivista "Ecole". Tra i fondatori di "Alba" e de "L'Altra Europa" ha partecipato da protagonista a numerosissime iniziative politico-culturali.

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