«Il contagio, che nell’epidemia ha tanta importanza, fa sì che gli uomini si isolino gli uni dagli altri. Il miglior modo di difendersi consiste nel non avvicinare alcuno: chiunque potrebbe già portare in sé il contagio […]. Ciascuno schiva gli altri. Tenere gli altri a distanza è l’ultima speranza. La prospettiva di vivere, la vita stessa, si esprimono per così dire nella distanza dagli ammalati». Non sono, anche se lo sembrano, parole tratte da una cronaca di quest’anno. Vengono da Massa e potere, il «libro di una vita intera» che Canetti pubblicò nel 1960 ma al quale pensava e lavorava almeno dal quel giorno del 1927 in cui assistette allo spettacolo mirabile e terrificante della folla viennese che assaltava il Palazzo di Giustizia.
Che un libro sulle masse includa un capitolo dedicato alle “epidemie” non deve stupire. Prima di tutto, per l’ovvia ragione che anche le epidemie sono eventi di massa. Non tanto perché scatenano il panico. Anzi, col panico scompare la principale condizione di esistenza della “massa”: la direzione comune verso cui tutti agiscono. Ad essa torna a sostituirsi l’obiettivo immediato ed egoistico della sopravvivenza individuale. Non si bada a compagni, colleghi, amici, familiari: la massa come individuo collettivo si polverizza nella fuga incontrollata e incoerente dei suoi membri. Le epidemie però creano delle altre “masse”: la massa dei malati e quella dei morti, anzitutto. Ma nell’analogia c’è dell’altro. L’epidemia è, infatti, spinta dal contagio e il contagio è, da almeno un paio di secoli, la metafora più usata – e abusata – di un’azione di massa. Non che le persone non si siano sempre accorte di un certo parallelismo tra contagio e comportamenti collettivi. C’è stato però un determinato periodo storico in cui si sono poste definitivamente le condizioni per una completa identificazione tra questi due fenomeni. La metafora si è tradotta in un dato acquisito e si è ritenuto, a partir da allora, di poter studiare i contagi sociali con gli stessi strumenti con cui si misurano quelli, per così dire, biologici.
Tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi due del Novecento, le “masse” e le “folle” diventano all’improvviso protagoniste di libri, articoli, corsi universitari e dotte conferenze. Protagoniste in senso proprio, cioè protagoniste della storia, lo erano diventate già da un po’. Almeno da quando la rivoluzione industriale le aveva spinte ad agglomerarsi nelle città, a traboccare dai quartieri operai, a intrupparsi nelle fabbriche, a far parte di un processo produttivo del quale rappresentavano una risorsa quantificabile come altre. Se, insomma, altro non erano che un numero, allora per la forza di quel numero avrebbero potuto farsi sentire. Si sarebbero radunate in cortei, avrebbero dichiarato scioperi, avrebbero scandito la vita quotidiana delle metropoli con rivolte e manifestazioni. Poi avrebbero preteso il voto e l’avrebbero ottenuto. Sarebbero diventate protagoniste attive di cambiamento e strumenti passivi nelle mani del demagogo di turno.
Non era niente di nuovo, è vero, ma era qualcosa di mai visto in quelle dimensioni. La potenza della folla adesso spaventava, ma spaventavano soprattutto i suoi comportamenti irrazionali, il suo continuo oscillare tra conformismo e apatia e scoppi d’ira improvvisi e incontrollabili. Nella folla sembra di riconoscere le dinamiche dello sciame, ma più che dello sciame ordinato, gerarchico e operoso delle api di quello distruttivo e acefalo delle locuste, che all’improvviso riunisce moltitudini di individui fino ad allora isolati e li trasforma in una forza predatrice e inesorabile. Come può avvenire una simile metamorfosi? Occorrevano nuovi strumenti per comprenderlo. Strumenti che, come insegnava il catechismo positivista, dovevano essere ricavati da uno studio dei fenomeni sociali che seguisse il metodo delle scienze naturali. Due discipline mediche in rapido sviluppo, la psicologia e l’epidemiologia, mettevano a disposizione due casi di studio: l’ipnosi e, appunto, il contagio. L’ipnosi chiarisce le dinamiche d’imitazione. È un’analogia che funziona bene: la folla come un grande ipnotizzato: un ipnotizzato collettivo. Sembra spiegare bene la significativa perdita di coscienza individuale che ogni essere umano (non importa quale sia il suo grado di istruzione, il suo carattere, la sua moralità) subisce quando viene risucchiato dalla folla. Inoltre, funziona soprattutto in ambito politico, perché prevede la figura del demagogo: l’ipnotizzatore di folle. Però, sembra non cogliere qualcosa di più profondo. L’origine della folla proviene, spesso, da qualcosa di endogeno, di apparentemente spontaneo, più che da un impulso esterno. È qualcosa di invisibile e di inizialmente inavvertibile, magari nasce dal comportamento di un unico individuo e poi si estende ad altri due e da questi due ad altri quattro e poi avanti così, in maniera esponenziale. La folla è un contagio.
Nel 1889, Giuseppe Sergi, un antropologo collaboratore di Cesare Lombroso, pubblicava sulla Rivista di Filosofia Scientifica (vera e propria rassegna del positivismo italiano) un articolo dal titolo curioso: Psicosi epidemica. Sergi sosteneva di aver osservato nelle «vicende contemporanee» il manifestarsi di una «malattia psichica collettiva» che «si comporta, nel suo propagarsi, come ogni altra epidemia». Come tale andava, allora, studiata, anche perché per comprendere i fenomeni patologici occorre cogliere il loro apparire nelle condizioni normali che precedono la comparsa del morbo. E chissà che questo non consenta di allestire i necessari presidi di vigilanza: d’igiene pubblica, insomma. L’articolo poi continuava toccando tutti i temi che sarebbero presto diventati i luoghi comuni dei molti libri dedicati alla nascente psicologia delle folle: da Le leggi dell’imitazione di Gabriel Tarde, del 1890, a La folla delinquente di un altro allievo del Lombroso, Scipio Sighele, pubblicato l’anno seguente, fino al best seller del genere: Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon, apparso nel 1895 e poi recensito da Vilfredo Pareto, discusso da Freud (nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, altro classico), citato da Schumpeter e autentico livre de chevet di Mussolini. Dunque, la «psiche», diceva Sergi, è, sempre e anzitutto, un fenomeno collettivo e solo in second’ordine individuale. L’individuo dev’essere studiato non isolatamente, ma a partire dalla psicologia del suo gruppo di appartenenza. Da buon antropologo positivista, Sergi parlava di «psiche etnica». Le «comunicazioni simpatiche tra gl’individui» erano descritte come fenomeni di «suggestione psichica», che è anche una suggestione «ipnotica». In quanto stato patologico, la psicosi epidemica ha le stesse caratteristiche di ogni altro morbo. Ha le sue fonti e le sue dinamiche di contagio: un individuo può contagiarne un altro attraverso la parola e lo stato morboso può essere aggravato dalla ripetizione del messaggio (una questione di “carica virale”, insomma). Non tutti sono contagiati allo stesso modo e alcune condizioni individuali aggravano o alleviano i sintomi: «propagasi come l’epidemia fra le genti, lasciando alcuni affatto immuni, altri presi con grande violenza, altri in forma più mite». Alcuni individui sono superspreader: i più suggestionabili, ad esempio, possono anche essere i più suggestionanti.
Se l’analogia funziona così bene, allora si può anche fare il percorso inverso. Dallo studio delle epidemie si può allargare lo sguardo fino a includere qualsiasi dinamica collettiva, abbia essa a che fare con l’economia e i consumi, con la politica o con qualsiasi altro fenomeno umano di massa. Nel 1916, Ronald Ross, ufficiale medico britannico e pioniere dell’applicazione della statistica allo studio delle malattie contagiose, pubblicava sui Proceedings della Royal Society londinese, un articolo sull’applicazione della teoria delle probabilità alle epidemie: sulla «a priori pathometry». L’articolo accompagnava il suo lavoro sulla prevenzione della malaria, vera pietra miliare dell’epidemiologia e per il quale avrebbe meritato, nel 1902, il Nobel per la medicina. Con quel calco dal greco, «patometria», Ross delineava il programma, esposto nell’ultimo paragrafo, di una «teoria degli eventi» (theory of happenings), che trattasse con lo stesso approccio statistico-matematico tutti i fenomeni collettivi «contagiosi». Avendo a disposizione i dati necessari, sarebbe quindi possibile tracciare le curve di contagio di qualsiasi dinamica di massa, consentendo così, eventualmente, di prendere le dovute misure di prevenzione. Ross contribuiva, insomma, a porre le basi – almeno programmatiche – dell’analisi quantitativa applicata alla società nell’era dei big data. Resta da risolvere, come sappiamo, il problema dell’interpretazione dei numeri. Che lo spirito positivista di Ross (e di Sergi) non si sia però dissolto nell’epoca del postmoderno lo conferma un libro sulle dinamiche di contagio uscito, con ammirevole tempismo, proprio quest’anno (Le regole del contagio, di Adam Kucharski, pubblicato in Italia da Marsilio). Tra le altre cose, vi possiamo leggere come gli sforzi «recenti» di considerare la violenza come un’infezione, anziché come il risultato dell’azione di «persone malvagie», rinviino alla ricerca ottocentesca delle «vere cause» del contagio malarico, che seppe vedere ben oltre il tradizionale e generico riferimento all’«aria cattiva». Anche in questo caso, il parallelismo non si ferma a un esempio, magari superficiale, ma si estende a un programma di ricerca: quello di una moderna »teoria degli eventi» che ci aiuti ad analizzare ogni fenomeno collettivo, «dalle malattie ai comportamenti sociali, alla politica e all’economia».
Oggi, nell’era della prima pandemia social c’è un Ronald Ross dietro a ogni compilatore di piani cartesiani pandemici, a ogni tracciatore di curve logaritmiche e esponenziali, a ogni statistico professionale o dilettante e ai suoi grafici. Ma ci vorrebbe un Giuseppe Sergi per descrivere la psicosi epidemica che ha colto tutti noi che li condividiamo e li commentiamo compulsivamente.
“Psicosi epidemica” non è pari ad “epidemia psicotica”: in altri termini, un conto è la propagazione di una psicosi come se fosse una malattia contagiosa del corpo, un altro è un’epidemia che stia tutta nella mente malata delle persone. Non sottolineare la differenza i due concetti è pane per i denti di un negazionista. Equivocarli apposta lascerebbe a costui una tavola imbandita.
20-11-03 martedì 13:45ca
Mi viene da pensare alle storie, polemiche?, sul sovranismo, o cose affini.
Propagatori ce ne sono molti, focolai di partenza abbastanza, contagiati chissà, sembrerebbero assai. Ma seguendo a volo d’uccello queste vicende noto che altrettanto numerosi, di più?, di meno?, sono quanti si dichiarano non contagiati, che a loro volta cercano di diffondere un’altra opinione, virus?
Concordo sul fatto che non è questione di singoli ma di masse, movimenti, interessi plurali, ma questo mi fa domandare se esistano vaccini, tali da poter essere accettati universalmente, che potrebbero essere accolti da qualunque lato si affronti, guardi, il problema. Ovvero, ci si può accordare sulla definizione di quale sia la cosa che non va e di seguito ci si unisca nella condanna, anche se non sul modo di risolverla.
Altro dubbio, esiste la possibilità che le parti non siano a priori già schierate e perciò sorde ad altre prospettive? Io parlo e so che chi ascolta in un certo modo già la pensa come me, ignoro volutamente chi parla ad altra congrega, e questo in maniera vicendevole.