Lunedì 16 novembre è stata una giornata paradossale, forse un momento di svolta, per il cosiddetto “approccio svedese” al Covid. Già da qualche tempo, alcune decisioni contraddittorie e certi slittamenti nel linguaggio adottato dalle istituzioni avevano anticipato la crisi di alcuni presupposti su cui si era basata finora la strategia svedese di gestione della pandemia, che ha suscitato reazioni opposte, di ammirazione e di riprovazione, nell’opinione pubblica globale.
Da un lato, la rapida crescita del contagio in quasi tutte le regioni del Paese è stata riconosciuta ed evocata più esplicitamente nella comunicazione pubblica, e i politici hanno dovuto ammettere che, con ogni evidenza, il grado di rispetto delle raccomandazioni – perlopiù non vincolanti – delle autorità si è abbassato. Ad esempio, a inizio settembre Johan Carlson, direttore della Folkhälsomyndigheten (FHM, l’autorità nazionale di salute pubblica), ha commentato con preoccupazione il crescente affollamento degli spazi pubblici e «una certa stanchezza» osservabile presso alcuni segmenti della popolazione – in quei giorni si discuteva soprattutto di giovani e studenti in procinto di riprendere l’anno scolastico e universitario – nel rispetto del distanziamento sociale. Queste ammissioni contraddicono, di fatto, la narrazione prevalente durante la primavera scorsa, in cui il mancato lockdown era giustificato attraverso l’idea di una popolazione responsabile, ragionevole e contraddistinta da un alto grado di fiducia verso le proprie istituzioni.
D’altro canto, sembrano entrati parzialmente in crisi i meccanismi istituzionali di ripartizione di competenze che rendevano la Svezia un caso eccezionale, lasciando un margine decisionale relativamente ristretto al Governo e dando precedenza assoluta alle decisioni della FHM, ente strumentale diretto da tecnici non eletti (come il nostro Istituto Superiore di Sanità). L’ampia autonomia di cui godono gli enti pubblici, garantita dalle leggi costituzionali svedesi, era stata finora invocata per giustificare l’approccio soft del Governo e la mancanza di lockdown durante la prima ondata della scorsa primavera. Da circa un mese, però, parallelamente a un inaspettato rilassamento delle restrizioni a livello nazionale (solo due settimane fa il numero massimo di partecipanti ad eventi pubblici è stato rialzato a 300 dai precedenti 50, mentre diversi indicatori già mostravano un aumento del contagio), c’è stato un maggior interventismo delle amministrazioni regionali, che hanno adottato raccomandazioni specifiche più severe – per quanto perlopiù non vincolanti – a seconda dell’andamento del contagio sul loro territorio. A oggi, sono state adottate restrizioni specifiche in 20 regioni su 21. Formalmente, questi provvedimenti locali sono stati presi «in dialogo tra le amministrazioni regionali e la FHM»: di fatto, alcune regioni hanno espresso impazienza e frustrazione per la risposta della FHM, giudicata troppo lenta. Nel frattempo, anche il Governo ha cominciato ad adottare provvedimenti più restrittivi nei pochi settori in cui ha la possibilità di farlo, ad esempio la vendita di alcolici: la scorsa settimana è stato annunciato il divieto di servire bevande alcoliche dopo le 22 in bar e ristoranti.
Lunedì poi, in una conferenza stampa eccezionale a sorpresa, il primo ministro Stefan Löfven ha annunciato una nuova misura, questa volta giuridicamente vincolante, e da lui definita senza precedenti nella storia moderna del Paese: la limitazione a un massimo di otto dei partecipanti agli assembramenti pubblici (in svedese, allmänna sammankomster). Come hanno spiegato i giornali, la categoria riguarda in realtà un numero limitato di occasioni sociali: essenzialmente, manifestazioni politiche e culturali, o funzioni religiose. Saranno questi eventi a essere vietati e sanzionati con l’entrata in vigore della nuova misura, mentre, paradossalmente, sarà ancora possibile – seppur fortemente sconsigliato – affollare un centro commerciale o una piscina. Löfven stesso ha ricordato, durante la conferenza stampa, che il Governo non può regolare minuziosamente per legge tutte le occasioni in cui avviene il contagio. Ma la nuova misura ‒ ha aggiunto ‒ va intesa come un segnale forte del Governo per far comprendere la gravità della situazione e per responsabilizzare i cittadini.
In effetti, la risonanza mediatica è stata forte. Ad esempio Filmstaden, la più grande catena svedese di sale cinematografiche (che detiene di fatto il monopolio, con l’eccezione di alcune piccole sale indipendenti e d’essai), ha immediatamente deciso la chiusura temporanea alla luce del discorso del primo ministro. Poco dopo però, in una intervista radiofonica, Anders Tegnell, l’ormai noto epidemiologo di Stato e principale portavoce della linea adottata dalla FHM, ha dichiarato che la decisione del Governo non riguarda i cinema o esercizi analoghi, ma soltanto le iniziative che prevedono occupazione di suolo pubblico e quindi richiedono un’autorizzazione della polizia. Qualche ora più tardi, a Filmstaden si sono rimangiati la decisione: bene, allora teniamo aperto. La mattina dopo, un addetto stampa del ministero degli Interni ha, a sua volta, contraddetto l’interpretazione di Tegnell, affermando che i cinema sono invece compresi nella nuova regola.
Nelle stesse ore, intanto, gli alleati centristi del Governo hanno chiesto di accelerare la procedura di adozione di una nuova «legislazione di pandemia», che permetterebbe al Governo di chiudere temporaneamente negozi ed esercizi commerciali, cosa oggi impossibile. In precedenza, il Governo aveva annunciato l’inizio dei lavori per l’elaborazione di una nuova legislazione da adottare entro la prossima estate. Avete letto bene: la prossima estate (2021).
Naturalmente è possibile che, come spesso avviene, le tensioni si ricompongano senza troppi drammi espliciti. Ma la rottura sembra evidente: si manifesta ormai un divario tra l’approccio di un ente pubblico composto da un numero relativamente limitato di decisori non eletti, verso cui l’architettura istituzionale ha convogliato un enorme potere, e il Governo e le amministrazioni regionali, che sentono il peso della responsabilità politica dell’aggravamento della situazione. Per quest’ultimo livello politico, lo spazio di manovra ridotto ha finora limitato l’azione a poco più di una moral suasion: una posizione vulnerabile, che un’intervista radiofonica di segno contrario può facilmente invalidare.
Le crescenti tensioni e contraddizioni che caratterizzano la comunicazione istituzionale mettono sempre più in evidenza che, tra gli ingredienti dell’approccio della Svezia al Covid, hanno un ruolo determinante la specificità dei meccanismi e dei processi decisionali e il potere relativamente ridotto del Governo nel regolare il settore privato commerciale e le interazioni sociali (perlomeno a certi livelli, mentre in altri settori – ad esempio il consumo di droghe e alcolici – l’approccio è più interventista e proibizionista). Se questi aspetti sono stati spesso portati a esempio di democrazia e di rispetto delle libertà individuali, i loro effetti andrebbero misurati più esplicitamente in termini di efficacia delle misure di protezione della salute pubblica.
Nel dibattito degli ultimi mesi, in effetti, questi meccanismi politici e giuridici sono spesso stati interpretati in termini culturalizzanti («l’etica protestante», «l’individualismo nordico») o moralizzanti («un popolo civile e rispettoso delle regole»). Queste caratterizzazioni, peraltro, si sviluppano in continuità con una (auto)rappresentazione tradizionalmente polarizzata dell’eccezionalismo svedese e di ciò che ha rappresentato in termini di utopia e di ingegneria sociale, di welfare e di neoliberismo, di “superpotenza morale”. A sostegno di una simile impostazione ci sono certamente alcune basi storiche e sociologiche, tuttavia i media mainstream hanno finito per affermare stereotipi consolidati e per cristallizzare una presunta alterità assoluta dell’approccio svedese e delle sue dimensioni culturali. In questo modo, incidentalmente, hanno fornito argomenti a chi ha cercato di scaricare parte della responsabilità sulle minoranze, sovrarappresentate nelle statistiche sul contagio durante la primavera scorsa e descritte come non abbastanza integrate nel presunto contratto sociale svedese fondato su responsabilità e fiducia. Il contagio nelle periferie povere di Stoccolma, densamente popolate e abitate da una maggioranza di immigrati extra-europei e svedesi di seconda generazione, ha catalizzato un dibattito articolato prevalentemente sulle abitudini residenziali di ordine socio-culturale e sugli ostacoli linguistici alla comprensione delle raccomandazioni ufficiali, anziché sugli aspetti di classe – il tipo di professione svolta e la relativa esposizione al virus – e sulle politiche della casa all’origine dell’affollamento dei quartieri popolari. Possiamo solo chiederci che cosa sarebbe successo se, anziché coltivare polarizzazioni e stereotipi, il dibattito pubblico fin da marzo avesse cominciato a riflettere seriamente sui pro e i contro della legislazione e dei meccanismi politici e giuridici esistenti e su come adattarli alle mutate condizioni mantenendo l’equilibrio tra i poteri e il controllo democratico. Forse, discutendo di questo più che dei livelli di fiducia rilevati dal World Values Survey o dai fan di Tegnell che si tatuano il suo volto sul braccio, si sarebbe contribuito a rendere più partecipata e trasparente questa fase di adattamento legislativo e politico al contagio.
A conclusione della giornata campale di lunedì 16 novembre, in serata l’OMS ha convocato una conferenza stampa in cui si è parlato, tra le altre cose, delle mascherine, riferendosi esplicitamente alla persistente riluttanza delle autorità svedesi a consigliarne l’uso. Le mascherine funzionano, ha detto l’OMS. La Svezia è l’unico paese europeo a non consigliarne l’uso in nessuna situazione, e anzi la FHM linka sul suo sito un elenco di una trentina di studi che ne dimostrerebbero l’inutilità. Ma qualche ora prima una giornalista svedese e una ricercatrice britannica avevano mostrato i risultati di una loro rassegna dei suddetti studi: due terzi indicano in realtà risultati contraddittori e includono diversi elementi a conferma di un’utilità almeno parziale delle mascherine. Due giorni dopo poi, mercoledì 18, i partiti dell’opposizione hanno per la prima volta chiesto al Governo di rendere conto del mancato adeguamento alle raccomandazioni dell’OMS sulle mascherine (che in realtà, più che dal Governo, dipende dalla linea adottata dalla FHM), intestandosi da destra una critica che nel resto del mondo caratterizza perlopiù movimenti sociali e forze politiche collocate a sinistra. Insomma, come diceva Mao, stor oreda under himlen (grande è la confusione sotto il cielo).