La pubblicazione a rate di messaggi e conversazioni private captate dal trojan inserito nel telefono dell’ex Presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura Luca Palamara ha aperto uno squarcio sui retroscena della gestione “indipendente” delle carriere dei magistrati, facendo emergere la trasformazione di alcune correnti in mere strutture di potere. Anche la rozzezza del linguaggio esprime il vuoto di idealità e di cultura di un ceto associativo che si concepisce come una cordata impegnata a distribuire favori e promozioni ai propri adepti e sgambetti agli avversari. La pubblicazione delle intercettazioni ha provocato una vera e propria crisi di nervi in seno all’ANM, con le dimissioni del suo presidente, Luca Poniz, pur estraneo a questi maneggi, e ha fatto emergere una situazione diffusa di sconforto fra molti magistrati e di insofferenza nei confronti delle correnti, al punto che alcuni ne hanno invocato addirittura lo scioglimento.
Fare emergere un bubbone che condiziona negativamente l’esercizio di alcune funzioni pubbliche è sempre una cosa positiva, però chi conduce l’operazione non sempre è mosso da buoni intenti. Specialmente se le carte sono servite da un quotidiano che agisce come falange di una fazione politica, che pomposamente si autodenomina «La verità» e per il quale il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura è una vera e propria bestia nera. Da una verità parziale, infatti, è facile costruire una grande menzogna.
La chat più citata dal quotidiano vede come autori il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma e Luca Palamara: «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando», scrive Auriemma nell’agosto 2018 quando di Salvini si parlava soprattutto per la chiusura dei porti. E ancora: «Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. A un certo punto Palamara pronuncia la frase che La Verità pubblica in prima pagina in cui sostiene che «ora» Salvini «va attaccato». La conclusione è di Auriemma: «Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso perché tutti la pensano come lui. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti. Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili».
Dopo la pubblicazione dell’intercettazione, Salvini ha scritto una lettera a Mattarella appellandosi al suo ruolo istituzionale di presidente della Repubblica e del CSM: «Diversi magistrati nei loro colloqui privati concordavano su come attaccare la mia persona per la politica sull’immigrazione che all’epoca, quale ministro dell’Interno, stavo portando avanti. La fiducia nei confronti della magistratura adesso vacilla», ha scritto Salvini, chiedendo la garanzia «di un processo giusto davanti a un giudice terzo e imparziale
La verità parziale è il colloquio intercettato, la grande menzogna è il tentativo dell’ex ministro dell’Interno di farsi passare per un perseguitato politico, vittima di una congiura giudiziaria. Bisogna rilevare che questo tentativo di screditare la magistratura e di strumentalizzare il ruolo del Capo dello Stato, come garante del corretto esercizio delle funzioni istituzionali, si è infranto di fronte alla saggia risposta del Presidente della Repubblica che, con una nota del 29 maggio, ha stoppato la campagna che pretendeva uno scioglimento extra ordinem del Consiglio Superiore della Magistratura e ha rintuzzato la pretesa di Salvini di ottenere una censura di non imparzialità nei confronti dei magistrati che stanno procedendo contro di lui.
Detto questo, occorre sgombrare il campo da equivoci e chiarire, al di là della sua evidente inopportunità, il senso del colloquio fra Palamara e il Procuratore di Viterbo. I due magistrati parlano fra di loro, in modo superficiale e improprio, di una vicenda politica che ha acquistato risvolti giudiziari. Nessuno dei due ha competenza su tali risvolti ed entrambi mostrano di non aver studiato le carte e di non aver approfondito gli aspetti giuridici che saranno esaminati dal Tribunale dei Ministri di Catania. Si tratta quindi di una conversazione su fatti della politica al di fuori di ogni competenza giudiziaria degli interlocutori: e dunque di una conversazione come potrebbero fare gli avventori di un bar. D’altronde i ragionamenti che fa il Procuratore di Viterbo sono quelli che potrebbe fare quisque de populo. Auriemma espone dei sentimenti molto diffusi a livello popolare: i naufraghi non devono essere sbarcati perché sono degli invasori, anzi devono essere riportati indietro, nei lager libici da dove sono fuggiti. Palamara dal canto suo, non dissente da quest’impostazione ma la considera non opportuna sotto il profilo politico. È evidente che il Procuratore di Viterbo parla di fatti che non ha studiato come magistrato, altrimenti non potrebbe ritenere lecito il respingimento collettivo dei migranti-naufraghi in Libia, dal momento che per tale pratica l’Italia è stata severamente condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza Hirsi contro Italia del 23 febbraio 2012 poiché il divieto di tortura (art. 3 della CEDU) e il diritto internazionale (non-refoulement) impediscono che delle persone possano essere consegnate nelle mani degli aguzzini libici, tanto più che l’art. 4 del Protocollo 4 della CEDU vieta il respingimento collettivo degli stranieri, mentre le Convenzioni internazionali sul diritto del mare ci impongono salvare quelli che rischiano il naufragio e di sbarcarli in un posto sicuro, anziché di farli affogare. Non si vede come le sue affermazioni da bar, contrastate con argomenti non giuridici da un capo corrente, possano incidere sull’attività giurisdizionale doverosamente posta in essere dai magistrati competenti nelle sedi proprie.
Salvini stia tranquillo. Se proprio si vuole estrarre un significato da una conversazione così irrilevante, il senso è che le banalità e i luoghi comuni distribuiti al popolo dal leader della Lega, fanno breccia anche nell’immaginario dei magistrati e potrebbero condizionarne l’imparzialità. A suo vantaggio.