L’invasione dell’Ucraina è a un punto di svolta. Le truppe russe sono ammassate alle porte di importanti città e snodi strategici; Mariupol è senza elettricità, acqua e riscaldamento e anche le forniture mediche e i beni essenziali sono difficili da reperire. La città di Kiev è quasi accerchiata e la regione circostante è teatro di scontri e combattimenti; nel resto del Paese, i civili sono sotto l’assedio dei bombardamenti. La popolazione Ucraina si prepara a combattere e a resistere all’accelerazione bellica che, inesorabilmente, avverrà in questa settimana. Perché, duole riconoscerlo, il rallentamento di questi ultimi giorni è solo la quiete prima della tempesta. Putin dovrà accelerare i tempi: le sanzioni stanno creando qualche effetto e le coraggiose manifestazioni della popolazione russa – come a San Pietroburgo – alzano la pressione interna. Del resto, i sequestri dei beni di lusso degli oligarchi hanno un effetto simbolico ma non sostanziale: rappresentano una minima frazione dei loro patrimoni e non intaccano la fonte delle rendite da cui traggono i benefici principali, cioè Putin stesso e – per sua intermediazione – lo Stato russo. Per sortire un “cambio di regime”, le sanzioni dovrebbero interdire il potere di rendita del leader, quindi la sua capacità di redistribuire risorse alle élite, che solo a quel punto avranno gli incentivi a rimuovere il leader. Ma praticamente tutti i beni che gli oligarchi gestiscono appartengono allo Stato, cioè di fatto a Putin. La Russia non è uno Stato nel senso moderno del termine, con la separazione tra patrimonio pubblico e quello dei governanti. Putin è l’azionista di riferimento, mentre gli oligarchi sono semplicemente degli amministratori delegati. A differenza degli oligarchi di Eltsin, che erano più co-partner dello Stato, gli oligarchi di Putin non hanno alcun potere politico. Le sanzioni più “diffuse” – come il blocco delle operazioni di Mastercard e Visa – non rappresentano ostacoli insormontabili, come mostra la decisione di Sberbank di emettere la carta Mir con la cinese UnionPay.
Nel voto dell’assemblea generale dell’ONU di condanna all’invasione russa, 141 Stati si sono espressi a favore della mozione, 5 hanno votato contro e 34 si sono astenuti. Tra questi ultimi, ci sono l’India e – appunto – la Cina. Putin, a livello della comunità internazionale, non è isolato e può attivare altri circuiti e filiere in sostituzione di quelle colpite dalle sanzioni. In questo scenario, la strategia europea – sostenere la resistenza della popolazione ucraina con l’invio di armi in attesa che le sanzioni sortiscano effetti tangibili – è destinata al fallimento. Con conseguenze tragiche per la popolazione civile. Perché per ora la Russia non ha dispiegato tutta la sua forza militare; e quando lo farà – esigendo un orribile sacrificio – se ne vedranno le conseguenze sul campo.
La realtà che l’Europa non vuole riconoscere è che Putin – come ha sostenuto Alessandro Orsini (Direttore dell’osservatorio sulla sicurezza internazionale della LUISS) – a Piazzapulita e a SkyTg24 – ha già vinto. L’affermazione ha ovviamente suscitato l’ira dei più, come di fronte a tutte le dichiarazioni che riportano brutalmente alla realtà: il Re è nudo. La guerra è persa, l’avversario storico ha vinto, e la si può solo fermare aprendo un tavolo di trattative con l’aggressore. Negoziando ciò che sarà possibile, ma da una posizione di inferiorità. Si deve scegliere, subito, tra l’illusoria opzione di poter fermare Putin – sacrificando migliaia di civili in vista di un obiettivo irraggiungibile – o fermare la guerra chiamando a raccolta tutta la comunità internazionale e, quindi, allargando le trattative ben oltre il ristretto consesso della NATO. Ne ha scritto Gabriele Catania sul blog dell’Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro (https://www.glistatigenerali.com/diritti-umani_russia/ottima-pace-russia-ucraina-ue/): una pace ragionevole è possibile. Occorre che l’opzione negoziale sia messa sul tavolo come l’unica possibile via d’uscita: negoziare vuol dire riconoscere i rapporti di forza in campo e cedere X in cambio di Y. Il negoziato non può prescindere dal riconoscimento della mancata trasformazione delle economie di Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Georgia in regimi contendibili: molto semplicemente, l’Europa non ha fatto per questi Paesi ciò che la Germania Ovest ha fatto per la ex-DDR. Anche per questo, la figura di Angela Merkel può e deve avere un ruolo di primo piano nella trattativa.
Inoltre, il negoziato deve avere uno sguardo lungo – intriso di utopia e ambizione politica – capace di integrare la Russia nell’economia occidentale, lavorando anche per la riconversione ecologica delle sue industrie, verso il rafforzamento della società civile e la costruzione di alleanze strutturali con le istituzioni culturali e scientifiche del Paese. Perché, come recita lo studio prima menzionato, la pace può essere costosa, ma la guerra lo è molto, ma molto di più.