Queste riflessioni hanno come quadro di riferimento tre dati di fatto:
1) nelle due ultime settimane di agosto, il secondo anniversario dei massacri e l’espulsione violenta della minoranza islamica dei Rohingyas dal loro territorio in Myanmar a partire dal 25 agosto 2017, con la responsabilità diretta del governo militare e la connivenza piena del primo ministro Aung San Suu Ky, sono stati oggetto di forte attenzione da parte della stampa internazionale. Al di là della rilettura dei dati di fatto ormai iper noti, al centro dell’attenzione c’è lo stato attuale della qualificazione giuridico-politica di quanto successo, delle posizioni di sostanziale incapacità e, più ancora, dell’assenza di proposte concrete di soluzione da parte delle istituzioni del diritto internazionale e dei governi regionali. Con poche eccezioni – il rapporto di Stefano Vecchia su Avvenire del 30 agosto ne è certo quella più notevole per completezza e lucidità – la stampa italiana ha del tutto ignorato il caso;
2) ricorre fra pochi giorni, il 22 settembre, il secondo anniversario del giudizio di quegli eventi da parte della giuria internazionale del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). Sulla base della documentazione raccolta, che ha riguardato anche la storia di repressione dei diritti del popolo dei Rohingyas precedente al mese di agosto 2017, il TPP si è pronunciato, con una tempestività coerente con la gravità di quanto accaduto, con la qualificazione articolata e rigorosa di «genocidio ancora in corso» (in un certo senso tragicamente “esemplare” secondo i termini di riferimento del diritto internazionale), al di là di tutte le reticenze adottate dalle cronache e dagli attori internazionali che parlavano di “risposta militare eccessiva a conflitti interni”, di crimini isolati di gruppi militari o di crimini di guerra e/o contro l’umanità, fino al “sospetto” di pulizia etnica;
3) dopo due anni che le commissioni di inchiesta politiche e umanitarie, dell’ONU, dell’UE, di tutte le organizzazioni islamiche o dell’ASEAN, hanno concordemente constatato/denunciato come invivibili e inumane le condizioni dei sopravvissuti ai massacri ammassati nel campo di concentramento più grande del mondo di Cox’s Bazar in Bangladesh, non c’è ancora una soluzione praticabile in vista. Il “ritorno”, che sarebbe la cosa più ovvia e corrispondente al giudizio di responsabilità del regime di Myanmar in vari modi riconosciuto da tutte le parti (con l’eccezione delle potenze più interessate nelle strategie regionali, India e Cina, quest’ultima associata alla Russia nel veto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU), si scontra con l’assoluta negazione da parte del Myanmar non solo della cittadinanza, ma dell’esistenza stessa di una identità Rohingya. La pressione per un ritorno “volontario” ma senza garanzie né di territorio né di riconoscimento di diritti dà l’idea del grado di “tragico assurdo” della situazione.
Le riflessioni che si propongono possono essere raccolte attorno a poche parole-chiave che mirano a fare dei Rohingyas non uno scenario di cronaca periferica e occasionale (con le immagini divenute iconiche nella “narrazione-visibilità”’ di che cosa è un “genocidio in corso”), ma un promemoria permanente delle implicazioni di una realtà globale nella quale i diritti umani e dei popoli sono sospesi senza tempo. Così facendo, i Rohingyas sarebbero tolti almeno dalla loro lontananza, per diventare protagonisti, con tanti altri conflitti (da quello antico della Palestina all’ultimo del Kashmir o a quelli che i fuochi dell’Amazzonia nascondono: i nomi sono troppi per essere qui elencati) di una mappa-capitolo trasversale che rende evidente le priorità politiche e culturali oggi obbligatorie e complementari a quelle dell’ambiente e di una economia programmata per produrre-legittimare disuguaglianze.
Genocidio è la prima di queste parole, con il suo completamento essenziale: in corso. Nella concretezza della giurisdizione universale, nell’immaginario collettivo (sullo sfondo della shoah), il genocidio è la frontiera che non può essere superata. Se si accetta il genocidio, si accetta la fine di un disegno umano sulla società. “In corso”, sullo sfondo di tutto quanto si sa, si vede, si discute, si prolunga, dice, da ormai due anni, che noi stiamo sempre più e solitamente vivendo tempi e società che si abituano a essere compatibili e infestabili con l’abolizione dei principi stessi dei diritti fondamentali.
Impotenza programmata: vorrebbe riassumere-definire, non per dire qualcosa di nuovo, ma per esplicitare come la realtà dei Rohingyas documenti quanto le alleanze economico-militari hanno preso tutto il potere, facendo di quelli che dovrebbero essere i loro termini di riferimento (una politica che risponde almeno ai diritti fondamentali, umani e dei popoli) attori che recitano il teatro dell’impotenza. L’ONU ha prodotto rapporti durissimi che hanno portato la CPI a prendere posizioni con una Commissione di indagine ad hoc, ma le ragioni strategiche ed economiche della Cina impediscono anche l’esame del caso Rohingya da parte del Consiglio di Sicurezza. Gli USA hanno perfino formalmente dichiarato colpevoli alcuni generali e hanno invocato l’embargo sulle forniture militari, ma continuano a includere il Myanmar tra i Paesi con cui si fanno esercitazioni militari anti-Cina. L’UE raccomanda tutto, umanitariamente, ma fuori da qualsiasi agenda politica. Solo il Canada ha cercato di prendere posizione. L’ASEAN guarda ai propri equilibri interni, e invoca soluzioni che vengano da altre parti…
Narrazione-rappresentazione. Tra i termini che ricorrono più frequentemente nelle cronache su Myanmar-Rohingyas ricorrono quelli che rimandano ad attori-cause-appartenenze religiose. Islam e buddismo sono quelle centrali: minoranza islamica vs maggioranza buddista. Le minoranze cristiane del Nord non sono a loro volta immuni da repressioni molto dure. È impressionante vedere, in tutta la documentazione passata anche per le mani del TPP, quanto le “denominazioni religiose” non hanno alcun rapporto con le cause di quanto succede. Entrano o escono dalle analisi e dalle cronache se sono utili a discorsi dell’odio, per creare “nemici” che si possono e devono legittimamente eliminare, per rivestirsi di solidarietà a livello internazionale e dare aiuti. Anche in questi termini, quello dei Rohingyas è un caso-scuola nei capitoli trasversali delle priorità sopra ricordate.
Diritti umani in un’era post-umana è il titolo di un libro dell’indiano Upendra Baxi (filosofo del diritto, docente in UK e Australia, membro del TPP) che anni fa metteva in evidenza la progressiva perdita di senso delle categorie classiche e consacrate del diritto, di fronte a una realtà concreta, legale e di potere che non ha più a che fare con i soggetti di diritto, le persone, ma con “cose”, transazioni, scambi immateriali di capitali e di poteri. Non c’è dubbio che questa trasformazione si è solo accelerata negli ultimi anni. Il tempo post-umano non nega i diritti umani. “Semplicemente” non ha più tempo, né strumenti per dare loro sufficiente attenzione preventiva, o giudicante, o sanzionatoria. Il modello di genocidio-in-corso riassume bene questo dato di fatto. Non è un crimine puntuale. È un processo molto articolato. Con pochi attori principali che esprimono le strategie conniventi o favorenti o assenti di reti vicine e lontane di interessi. Crimine di sistema: che è somma moltiplicativa di tutte le tipologie di crimini contro l’umanità che si possono elencare: stupri, traffici umani, fame, negazione di cultura ecc: i rapporti sui Rohingyas riproducono (ogni volta esemplarmente, e ripetendosi nonostante le tante forme di resistenza) scenari e dettagli che sono comuni a tutta la mappa trasversale che si è citata sopra.
Il genocidio – questo delitto innominabile nel diritto internazionale perché “dovrebbe” essere inconcepibile, intollerabile, sanzionato, punito all’unanimità e senza ritardi – si è trasformato in una componente della realtà quotidiana. Il popolo dei migranti, senza cittadinanza, né territorio, né solidarietà, né luogo di ritorno, popola il quotidiano nostro, dell’Europa, di tutti i Paesi che nella scala della diseguaglianza sono controllati dalle numericamente ridicole minoranze che sono al vertice degli scambi non-umani, economici, militari, politici. Questo popolo così vicino, e così negato, fa da ponte con quello che può apparire lontano. Insieme dicono quanto e come i processi di negazione dei diritti, e ancor di più l’impunità e l’impotenza programmata che li fa “normali” e li rende tanto “infettivi” nelle società sono collegati. E richiedono una stessa resistenza, creatività, disincanto, durata per non cedere alle narrazioni tranquillizzanti e rivolte a un futuro senza tempo e senza persone di cui sono fatte le dichiarazioni ufficiali.
È per tutto questo che la storia e il destino di questa “minoranza umana” tanto lontana devono ricevere una attenzione non diversa da – e fortemente complementare con – quella delle politiche che abitano il quotidiano delle nostre vite.