Migranti senza confini nel Sahel

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Il Sahel (in arabo, costa del Sahara) è una vasta area che si estende tra l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso. Dei 14 Stati che lo compongono prenderemo in considerazione solo quelli dell’area Nord occidentale, importanti per il ruolo storico e attuale nei processi commerciali e migratori tra Africa ed Europa: Niger, Mali, Ciad.

Da tenere comunque presente che il Sahel ha confini con Senegal, Mauritania, Camerun, Algeria, Marocco, Libia, Sudan, Eritrea, Etiopia, Repubblica centro africana. Un vasto territorio, perlopiù desertico e poco popolato, da secoli importante nei rapporti commerciali tra Africa sub sahariana e Mediterraneo.

Oggi è uno dei crocevia più importanti per i flussi emigratori

La zona orientale ha avuto, da sempre, una funzione critica quale crocevia delle vie di collegamento tra Africa sub sahariana e Mediterraneo. È la cerniera naturale lungo l’asse nord-sud, ovvero tra l’Africa settentrionale (araba e musulmana) e l’Africa nera.

La sua importanza geo-politica è particolarmente cresciuta nell’ultimo decennio quale via di transito delle migrazioni da diversi Paesi africani del Sud del centro e del Sud del continente.

Proprio da qui si dipartono le piste che, avventurandosi nel deserto del Sahara lungo le antiche rotte carovaniere, mettono in comunicazione con il bacino del Mediterraneo; con la differenza, non da poco, che rispetto al passato non si commerciano più spezie, avorio, sale e oro ma bensì droga, armi, materie prime ed esseri umani (questi ultimi, in verità rappresentano una costante).

Il Sahel è, di conseguenza, una regione di importanza fondamentale non solo per gli equilibri dell’Africa settentrionale e centrale ma anche, di riflesso, per l’Europa meridionale; purtroppo la sua stabilizzazione è ostacolata dal sovrapporsi degli interessi interni ed esterni e da un approccio sbagliato, neocolonialista da parte della Francia: interventi militari; compromessi e sostegno a governi corrotti e dispotici (nel solo Mali si sono avuti cinque primi ministri in cinque anni); controllo sulle materie prime; disinteresse per le opposizioni democratiche perseguitate.

Tutta l’area è colpita da un problema naturale. La scarsità e soprattutto la variabilità di risorse idriche. A piogge torrenziali e violente seguono lunghi periodi di siccità, un flagello ricorrente e un pericolo continuo di desertificazione. La più recente è stata la catastrofe del 2010 che provocò la morte per fame e denutrizione di centinaia di migliaia di persone e la diffusione di malattie, colera, gastroenterite, disturbi respiratori, meningite). Ne sono seguite altre con impatti meno devastanti ma comunque sempre drammatici umanamente e distruttivi per il territorio.

La geografia, popolazioni, risorse

Il Sahel è scarsamente antropizzato: nell’Est, il territorio che ci interessa, vivono appena circa 100 milioni di abitanti con poche città degne di questo nome, seppur talvolta con alle spalle una storia millenaria (oltre a Timbuctù da ricordare anche Dienné e Gao sempre in Mali, Agadez e Bilma in Niger e Oudane in Mauritania). L’urbanizzazione è, però, in forte crescita per l’arrivo di persone che fuggono dalla miseria di zone agricole e anche di rifugiati emigranti da altri Paesi.

Per meglio comprendere la situazione nel sub-Sahara occorre dapprima cogliere alcuni dei principali aspetti in corso di mutamento al suo interno.

Contrariamente a una diffusa percezione di immutabilità, la regione è da anni attraversata da profonde trasformazioni di carattere economico, politico e sociale, che qui possiamo richiamare solo in maniera sintetica.

Da un punto di vista economico, i Paesi sub-sahariani hanno vissuto tra il 2000 e il 2014 il periodo di crescita più rapida e sostenuta fin dalla loro creazione negli anni Sessanta, dopo l’indipendenza dalla Francia, potenza coloniale dell’area. Il tasso medio annuo di espansione del PIL è stato pari al 5,5%, frutto di dinamiche di sviluppo che hanno coinvolto buona parte delle economie della regione nelle zone coltivabili o pastorizie e dall’esportazione di petrolio (per alcuni). Un ruolo importante è stata la scoperta di materie prime rare tra cui l’uranio e minerali usati nelle nuove tecnologie. Lo scenario economico internazionale è andato tuttavia deteriorandosi a partire dalla fine del 2014, con il calo del prezzo degli idrocarburi e ha significativamente frenato questi sviluppi. I Paesi subsahariani esportatori di petrolio (su tutti la Nigeria) e di altre risorse minerarie sono stati i più colpiti.

 

Altro importante fronte di profonda e continua trasformazione è quello demografico. L’Africa sub-sahariana è l’area del mondo la cui popolazione sta attraversando l’espansione più rapida, al pari del continente. Il graduale allungamento della vita media degli africani non è accompagnato da una riduzione dei tassi di fertilità sufficientemente rapida da contenere gli aumenti e le pressioni demografiche. Le previsioni più accreditate indicano che la popolazione della regione raddoppierà nel 2050, proseguendo una dinamica di crescita sostenuta fino alla fine del XXI secolo. Secondo le proiezioni della popolazione delle Nazioni Unite, l’Africa sub-sahariana subirà un’impennata demografica e vedrà la sua popolazione aumentare da 970 milioni di oggi a 2,2 miliardi nel 2050, sarà l’area con il 22% della popolazione mondiale.

Tuttavia, due fattori demografici rendono obsoleta l’ipotesi di un flusso migratorio verso l’Europa paragonabile a questa crescita, con buona pace di chi grida alle invasioni: «L’Africa sub-sahariana emigra poco, a causa della sua povertà», osserva l’INED, l’Istituto nazionale di Studi Demografici francese, e «quando emigra, il 70% si sposta in un altro Paese sub-sahariano e solo il 15% in Europa, il resto è diffusione tra i Paesi del Golfo e il Nord America».

Secondo la “matrice” della migrazione costruita per quindici anni dalla Banca mondiale, l’OCSE e il FMI, incrociando le proiezioni demografiche con quelle delle Nazioni Unite, gli immigrati subsahariani di prima generazione dovrebbero avvicinarsi in Italia, nel 2050, al 3% della popolazione contro lo 1,5% di oggi. In tutti i Paesi dell’OCSE, dove gli immigrati subsahariani ora sono nella media dello 0,4% della popolazione, potrebbero aumentare la loro quota al 2,4% nel 2050. «Si tratta di un aumento significativo, ma del 2,4%, non significa in alcun modo parlare di “invasione”, nemmeno aggiungendo la seconda generazione». La migrazione subsahariana «non è un’anomalia minacciosa ma una forma ordinaria di mobilità umana».

Gli abitanti della regione vivono una cultura della migrazione. Fa parte della loro esistenza. Il tasso di migrazione stagionale tra i Paesi dell’area e quelli vicini è assai elevato. Il Niger ne è l’esempio più chiaro da moltissimi anni. La migrazione stagionale, localmente chiamata Exode, svolge un ruolo importante nella vita economica e culturale della nazione. Sebbene sia una pratica comune in molti Paesi, il Niger vede un terzo della popolazione rurale trasferirsi in un altro Paese per lavoro stagionale, durante la lunga stagione secca. Non solo le vie ma anche il modo di queste migrazioni sono il costrutto di centinaia di anni, e le destinazioni e il lavoro variano a seconda della comunità e del gruppo etnico.

Altro esempio sono le popolazioni del deserto, le comunità del nord, come i pastori dell’etnia Fula che hanno i loro modelli di migrazione stagionali stabiliti dai cicli di transumanza delle mandrie per pascoli e mercati. Tuttavia, anche loro vedono migrazioni di manodopera stagionale. L’Algeria, la Libia e il sud della Nigeria sono le destinazioni più comuni tra le comunità tuareg dalla complessa struttura in clan. L’attività di esportazione di successo proveniente dalle montagne Aïr, oasi per la produzione di prodotti come le cipolle spinge altri uomini fino al sud della Costa d’Avorio. Gli uomini Tuareg sono spesso presenti nelle città di tutta la regione del Sahel. Conducono la stessa vita e svolgono i medesimi lavori degli abitanti locali mostrando nei comportamenti una trasformazione culturale, anche in quelli di casta aristocratica o guerriera.

Il Niger è un punto di transito per gli immigrati provenienti da tutta l’Africa occidentale, che viaggiano in camion e autobus verso nord, specialmente in Libia, frequente punto di partenza nel tentativo di attraversare l’Europa. Come già detto l’esperienza della migrazione è antica nel Sahel, ha mescolato linguaggi, rapporti. Il linguaggio di diverse etnie non contiene termini come confine, Stato, divieti etc. Non è raro lo spaesamento dei nomadi nell’attraversare check point e vedersi controllati nei pressi di confini per loro inspiegabili.

L’insieme di questi mutamenti, sommati alle crisi politiche e agli effetti del cambiamento climatico, hanno prodotto ripercussioni sulla stabilità, sociale e politica, con alta frequenza di guerre civili inter-etniche. Tra il 2005 e il 2010, i conflitti armati in Africa subsahariana risultavano ben più circoscritti. L’area nel suo complesso dava un’immagine più stabile e sicura rispetto al passato; tra il 2010 e il 2016 tuttavia la conflittualità è fortemente cresciuta con la comparsa del fondamentalismo islamico violento e il ritorno di tensioni storiche (tuareg in Mali). Significativamente ciò è avvenuto contemporaneamente all’aggravarsi della situazione economica e i cambiamenti dovuti al riscaldamento climatico. Il Sahel, che rappresenta oggi il crocevia dell’instabilità africana, viene soprattutto descritto come una regione in cui predominano rivendicazioni di natura religiosa, sostenute da gruppi armati vicini ad al-Qāida nel Maghreb Islamico, o Boko Haran nel nord della Nigeria e la sua penetrazione in Ciad e Mali. Una visione riduttiva e schematica delle cause della conflittualità che vedono incrociarsi problemi socio-economici, legati alla marginalizzazione delle regioni settentrionali del Mali quelle confinanti con il Sahara, a tensioni comunitarie e ribellioni autonomiste e secessioniste di parte delle comunità come quella Tuareg. In Nigeria e nel bacino del lago Ciad, la violenza armata di Boko Haram è alimentata da motivazioni sociali e politiche, distruzione di vecchi equilibri tra agricoltura sedentaria e pastorizia nomade. Tutti fattori al centro della propaganda religioso-fondamentalista. L’aridità crescente dei terreni coltivabili per lo più posseduti da cristiani costringe a migrazioni verso le città o produce conflittualità con i gruppi nomadi pastorizi, mussulmani, per il controllo dell’acqua. La rovina del lago Ciad sta privando d’acqua l’intera regione, molti fiumi sono quasi in secca. L’aumento di temperatura è la prima ragione della scarsità idrica e della susseguente aridità del terreno.

Il Ciad, un esempio paradigmatico

Anche il Ciad è una situazione esemplare della condizione dell’area. Vi sono più di 200 gruppi etnici. Attraverso le loro antiche relazioni religiose e commerciali con il Sudan e l’Egitto, molte persone nell’est Sahel e delle regioni centrali sono state più o meno arabizzate.

Il principale gruppo etnico del Ciad sono i Sara, di religione cristiano/animista (popolo Sara) che vive nel sud e compone il 20% della popolazione. Nel Ciad centrale come nel nord Mali la popolazione è soprattutto nomade e si dedica alla pastorizia. I montanari del nord sono sparsi, principalmente di religione musulmana povera. Ciascuna comunità-tribù nel Ciad (più piccola dei gruppi descritti sopra) ha sviluppato la propria religione, musica e folclore.

Il Ciad è stato valutato dall’ONU come uno dei Paesi a più alto rischio sociale dato dalla combinazione di alta povertà, frequenti conflitti e rischio di siccità e alluvioni. La popolazione del Ciad è per lo più giovane. L’alta disoccupazione giovanile ha già causato disordini nella capitale N’djamena. Il Paese è stato in guerra civile o conflitto per 35 dei suoi 57 anni di indipendenza dalla Francia.

Il Ciad è più grande di quanto molti occidentali potrebbero pensare. Ha 1,28 milioni di km² ed è più esteso della Nigeria (il doppio della Germania); i suoi 10 milioni di abitanti vivono nella metà meridionale del Paese, poiché la maggior parte della metà settentrionale si estende fino al deserto del Sahara con clima arido poco coltivabile.

La maggior parte dei ciadiani basa il proprio sostentamento sull’agricoltura di sussistenza e sull’allevamento del bestiame. Le pianure semiaride del Sahel, nel nord del Paese, forniscono pascoli per il bestiame durante la stagione delle piogge, mentre i fertili campi agricoli nel sud producono la maggior parte del reddito e delle colture alimentari. Una geografia analoga a quella del Niger e del Mali. Quando inizia la stagione secca, i pastori spostano le loro mandrie verso sud per nutrirle con gli avanzi del raccolto agricolo.

Il Ciad e il clima che cambia

Dalla metà del XX secolo, le temperature in Ciad sono costantemente aumentate mentre le precipitazioni diminuiscono. Il più grande lago dell’area, il lago Ciad, è quasi scomparso negli ultimi 50 anni a causa di una combinazione di siccità e aumenti dei prelievi per l’irrigazione in agricoltura.

Gli studi sul clima prevedono temperature più calde nel corso del XXI secolo, il che significa minori raccolti, pascoli peggiori e una vita più dura per chiunque sia dipendente dal lago Ciad.

Le aree rurali sono maggiormente a rischio perché è lì che si trova la buona parte della popolazione. Tuttavia, anche le aree urbane non sono sicure, in quanto le città sono in crescita e vivono gravi difficoltà per l’arrivo di nuovi residenti. I servizi igienico-sanitari come il liquame, il drenaggio delle acque piovane e la raccolta dei rifiuti sono scarsi, secondo la Banca Mondiale. In caso di alluvioni, come accaduto nel 2010, 2011 e 2012, l’infrastruttura non può far fronte e le acque reflue non trattate possono infettare l’approvvigionamento idrico, creando un alto rischio di malattie infettive come il colera.

Sfide demografiche in Ciad

Secondo le stime delle Nazioni Unite, il Ciad ospita anche 300.000 rifugiati provenienti dal Darfur, al confine orientale con il Sudan, mentre altri 67.000 rifugiati dalla Repubblica Centrafricana sono nei campi al confine meridionale. Questi rifugiati consumano le risorse limitate del Ciad e talvolta competono con la popolazione locale. Ciò crea risentimento e talvolta violenza tra i rifugiati e i loro ospitanti.

A peggiorare le cose, la crisi di Boko Haram nel nord-est della Nigeria si è riversata nella regione del lago Ciad, che ora conta più di 60.000 sfollati registrati e altre migliaia che non sono registrati. Ciò è preoccupante poiché la gioventù disoccupata del Paese potrebbe essere a rischio di reclutamento e radicalizzazione da parte di Boko Haram.

Cambiamento climatico e conseguenze

Le radici degli alberi stabilizzano i suoli e proteggono dall’erosione durante le forti piogge, mentre assicurano il ripristino della fertilità semplicemente producendo lettiera. La mancanza di acqua determina essicamento delle piante e l’intero ciclo resta sconvolto.

Per affrontare le conseguenze del riscaldamento climatico sono necessarie risorse per progetti di miglioramento nelle tecniche agricole, diversificazione delle culture, sistemi di raccolta dell’acqua etc. I pochi progetti dimostrano che cambiamenti in positivo possono esserci, ma il Paese è povero. Il Ciad ha iniziato a produrre petrolio nel 2003 che ora rappresenta il 93% di tutte le esportazioni. Tuttavia, questo Paese è vulnerabile al calo dei prezzi del petrolio.

L’agricoltura è ancora la colonna portante dell’economia senza un suo ammodernamento e sviluppo la situazione del Paese può diventare tragica. Nel lungo termine lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e l’allevamento potrebbero essere la chiave per creare occupazione e migliorare la produzione. Sono però necessarie risorse per attivare progetti mirati, introdurre nuovi metodi e tecnologie. Risorse che mancano al Ciad. La situazione è davvero allarmante. «In Ciad, la produzione di cereali è diminuita drasticamente rispetto all’anno precedente. Nel mese di novembre, ci sono stati solo due mesi di riserve, non di più», ha dichiarato Jean-François Caremel, capo missione di Azione contro la fame (ACF), con sede nella capitale N’Djamena. Il raccolto è stato povero nei mesi senza piogge, nel mese di aprile fino a settembre-ottobre, i granai sono vuoti e il nuovo raccolto non è ancora pronto.

Mali

Il Mali, Paese confinante del Ciad, è diviso in un Nord prevalentemente desertico e in un Sud coltivabile e fruttifero. Al Nord vivono popolazioni di pastori Tuareg, nomadi e mussulmani di lingua berbera: quei Tuareg che hanno sempre rifiutato i confini stabiliti dai francesi dopo l’indipendenza e anche quelli con la Libia.

L’estensione territoriale è notevole – due volte la dimensione del Texas – e ha sofferto di conflitti di lunga data tra il popolo nomade del nord e i gruppi più stabiliti del sud, che hanno tradizionalmente tenuto il potere. Queste tensioni hanno provocato un colpo di Stato militare nel 2012 e sono state sfruttate da gruppi islamisti sempre più organizzati e violenti. Negli ultimi anni questi gruppi hanno ucciso migliaia di persone. Le Nazioni Unite hanno schierato una missione di peacekeeping di circa 12.000 soldati con un budget di circa $ 1 miliardo l’anno per il Mali, mentre i francesi, gli americani, gli inglesi e altri hanno inviato truppe o supporto militare, e i Paesi della regione hanno dispiegato 5.000 militari come forza di supporto. Ma le soluzioni ai problemi del Mali non possono essere risolte con le armi: servirebbe una governance inclusiva, equa e trasparente con il coinvolgimento dei gruppi tribali.

I tuareg che da tempo rivendicano l’autonomia si mossero verso il Sud occupandone una buona parte del territorio e costringendo il governo centrale a un accordo. I gruppi di opposizione nel Mali vedono in questo accordo la possibilità di introdurre cambiamenti politici e di imporre cambiamenti alla stessa struttura di potere: oggi corrotta, clientelare, inefficiente e sostenuta dalla Francia che ha notevoli interessi in loco.

L’esodo dei Tuareg può essere considerato un esempio di quale sarà lo stato della regione con l’avanzare degli aumenti di temperatura. Un fenomeno non circoscritto ma generale che potrà determinare spostamenti massicci di popolazioni. Studi condotti da un istituto universitario tedesco prevedono che l’intero Medio oriente non sarà più abitabile nel corso del secolo.

Niger

Il Niger, classificato in termini di sviluppo, all’ultimo posto tra i 182 Paesi membri delle Nazioni Unite, è il terzo più grande produttore di uranio.

Alcune popolazioni sono già state classificate dall’ONU come “vulnerabili” in conseguenza del riscaldamento della Terra. Il geografo Harouna Mounakaïla descrive, nell’osservare gli effetti di una crisi climatica: «movimenti molto più massicci del solito, di famiglie rurali verso le città in cerca di piccoli lavori, o per chiedere l’elemosina». La situazione ricorda la crisi del 2005, quando tre milioni di nigeriani soffrirono la fame. Non c’è da stupirsi, scrive un coordinatore di una ONG, che «si moltiplichino piccole e grandi delinquenze nelle città e nuovi affari legati alle emigrazioni».

Il Niger è un caso particolarmente interessante. Può essere considerato specchio e banco di prova delle politiche migratorie europee e anche di quelle di Italia e Francia, Paesi mediterranei. Situato nel medio continente africano, il Niger è composto per i 2/3 del territorio dal deserto del Sahara, inabitabile, che costituisce il nord del Paese. Il resto, sulle sponde del fiume Niger, presenta grandi savane dove è possibile allevare bestiame e praticare agricoltura di sussistenza. In quest’ultima regione si trova la capitale, Niamey, e la maggior parte dei centri abitati. Nella parte sudorientale del Paese si trova il Lago Ciad, che è condiviso con il Ciad, la Nigeria e il Camerun.

Il clima del Niger è uno dei più caldi al mondo, tanto che la temperatura media supera facilmente i 30°C. Le precipitazioni sono trascurabili nelle regioni settentrionali, mentre nelle regioni meridionali raggiungono gli 800 mm annui, concentrandosi tra giugno e ottobre.

Il Niger è uno dei più importanti Paesi al mondo per l’estrazione dell’uranio (circa 3243 tonnellate l’anno) ad opera della multinazionale francese Areva.

Fino a poco tempo fa, il Niger era il principale Paese di transito per i migranti subsahariani in viaggio verso l’Europa. La città di Agadez era l’ultima tappa, un punto di concentrazione e di attrezzatura logistica, prima di attaccare l’inferno del Sahara sino alle coste del Mediterraneo della Libia o dell’Algeria. «Nel 2015 e nel 2016, ogni anno ad Agadez sono arrivati 100.000 migranti, ha dichiarato Hassoumi Massaoudou, attuale ministro delle finanze, che ha poi ricoperto il portafoglio degli interni. Nel 2017, erano solo 20.000».

Al ministero dell’Interno Hassoumi Massaoudou fu l’architetto della fine dell’applicazione del 2016 di una legge per punire drasticamente il contrabbando. L’Europa ha applaudito, prima di tutto la Francia, per aver reso il Niger uno dei suoi migliori alleati nella regione nella lotta contro il terrorismo. Un centinaio di veicoli utilizzati per convogliare i candidati a partire sono stati effettivamente sequestrati dalla polizia, i contrabbandieri sono stati arrestati, processati e condannati. Un’economia fiorente e ufficiale – vettori, commercianti, proprietari terrieri… – è andata in frantumi in questo Paese che è tra i più poveri del mondo. E soprattutto la regione di Agadez, che un tempo era un prospero crocevia di carovane, e quindi una destinazione turistica, prima di essere rovinata dalle ribellioni tuareg degli anni ’90 e dall’attività dei gruppi jihadisti.

«La situazione è estremamente complessa», ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) Filippo Grandi durante una visita ad Agadez, esortando che l’assistenza allo sviluppo sia fornita alla comunità locale: «Che ci piaccia o no, la riduzione dei migranti ha fatto sì che migliaia di famiglie abbiano perso il loro sostentamento. Se la comunità internazionale non supporta il Niger, queste famiglie potrebbero rivoltarsi contro estranei bloccati qui».

Agadez è diventato un vicolo cieco. L’UE, attraverso il Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa, nonché i partner bilaterali, ha promesso centinaia di milioni di euro per aiutare la popolazione locale, al fine di offrire un’alternativa professionale agli ex trafficanti. Ma gli effetti non si sono ancora visti. Le conseguenze sociali sono diventate disastrose: aumento vertiginoso della criminalità, mendicità pervasiva, traffici collegati alla tratta dei migranti, corruzione nel sistema di amministrazione cittadino, violenze urbane.

Allo stesso tempo, la situazione è cambiata e comporta nuovi rischi. Da un lato, le reti di trasportatori stanno ora scegliendo rotte transahariane più pericolose di quelle precedentemente utilizzate, ora controllate dalle autorità.

Inoltre, le tensioni in altri Paesi spingono nuove immigrazioni. La città ha visto arrivare migliaia di rifugiati sudanesi del Darfur, in cerca dello status di rifugiato politico che possono teoricamente dare loro i funzionari dell’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi, prontamente inviato in Niger per collaborare con IOM e UNHCR. La Francia è impegnata ad accogliere 3000 rifugiati dal Ciad e dal Niger, ma, ad oggi, solo poche decine sono state ospitate. Questo flusso di richiedenti asilo ha causato tensioni con la popolazione locale. È per lo stesso motivo che il Ciad, vicino al Niger, si oppone all’idea di questi centri di smistamento e registrazione.

Gli autori

Toni Ferigo

Toni Ferigo è stato sindacalista della FIM e poi della CISL. Responsabile del settore internazionale è poi emigrato nella segreteria della Federazione internazionale sindacati metalmeccanici a Ginevra. Attualmente è pensionato ma continua a occuparsi dei temi del lavoro e delle relazioni sindacali.

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