La Costituzione nata dalla Resistenza, nel costruire una democrazia pluralista, conflittuale e sociale, armonicamente, sancisce il principio pacifista, rinnegando e rifiutando il fascismo con la sua violenza, la sua guerra di aggressione, la sopraffazione, la violazione dei diritti, la negazione del conflitto.
Il I Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia nel 1945 approva all’unanimità una mozione in cui si afferma che il futuro Stato italiano deve contribuire «al nuovo ordinamento internazionale fondato sulla libertà dei popoli, la democrazia, la giustizia e la pace». Fra il 1945 ed il 1946 molti fra i partiti poi presenti in Assemblea costituente tengono un congresso nazionale e, se pur con motivazioni e sfumature differenti, si pronunciano a favore dell’istanza pacifista. Il Comitato Centrale del Partito Comunista, in una dichiarazione del 1946, individua uno degli «scopi concreti» della politica estera italiana nel procurare «la garanzia al popolo italiano della pace»; in una nota di Rinascita si specifica: «l’Italia è stata gettata dal fascismo in una guerra ingiusta, imperialistica, di aggressione e di rapina. In questa guerra essa è stata sconfitta, ed è bene per l’umanità intiera che lo sia stata…» (n. 1/1945). Nel Programma della Democrazia Cristiana, redatto nel dicembre 1943 da De Gasperi, si legge: «la nostra lotta contro il fascismo e il totalitarismo statale è la stessa lotta che si combatte contro il militarismo imperialista e in favore di un ordine pacifico internazionale»; la guerra – insiste Don Sturzo – deve venir dichiarata «un atto immorale, illegittimo e proibito». Attraverso il principio pacifista, si trasla nella comunità internazionale la volontà di costruire una società uguale, una democrazia: «la dottrina democratica non è fatta per arrestarsi e per concludersi alle frontiere nazionali. È verità ormai troppe volte tragicamente scontata che totalitarismo e dittatura all’interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno» (Calamandrei, Partito d’Azione, 11 settembre 1945). In senso analogo si pronunciano il Partito Socialista («auspichiamo l’avvento di un ordinamento democratico anche nei rapporti internazionali») e quello Repubblicano («Bisogna superare la guerra come strumento di lotta, nazionalismi e imperialismi […] e l’Italia deve dimostrare la sua forza ideale fungendo da ponte fra gli altrui antagonismi e componendoli in un mondo libero, civile, pacifico»).
Esplicita inequivocabilmente il legame fra democrazia (sociale), pace e antifascismo Teresa Mattei (Assemblea costituente, seduta pomeridiana 18 marzo 1947): «Accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto […] la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini. […] Questo basterebbe […] a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione, perché proprio in queste fondamentali cose il fascismo ha tradito l’Italia, togliendo all’Italia il suo carattere di Paese del lavoro e dei lavoratori, togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale». La democrazia è compagna della pace, non della guerra, è una forma di Stato che si fonda sull’espressione pacifica dei conflitti, è il terreno nel quale i diritti vengono garantiti e si perseguono emancipazione e giustizia sociale; la guerra si accompagna alla sopraffazione, a violazioni dei diritti, alla diseguaglianza e al dominio. La costruzione di una democrazia conflittuale e sociale si accompagna al perseguimento di pace e giustizia a livello internazionale: questi sono i principi guida nelle relazioni internazionali e gli obiettivi che attraversano trasversalmente le tre proposizioni dell’art. 11 della Costituzione e fondano la partecipazione dell’Italia alle Nazioni Unite. Il ripudio forte della guerra (il termine «ripudia» fu scelto dai costituenti rispetto a “condanna” e “rinunzia” perché più “energico”), con la sola eccezione della guerra di legittima difesa, si accompagna all’azione per la pace; in coerenza con lo Statuto delle Nazioni Unite che, nell’intento di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», prevede, all’art. 51, il solo diritto di autotutela e precisa «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale».
Venendo all’oggi, in Ucraina, la via è agire con determinazione per una soluzione pacifica, per una conferenza internazionale di pace, che metta fine al più presto alle sofferenze degli ucraini (e analogamente si dovrebbe agire per tutti i conflitti in corso). Con una precisazione: il popolo ucraino esercita senza dubbio una legittima difesa a fronte dell’aggressione della Russia; non è tuttavia legittima difesa inviare armi fomentando una guerra per interposta persona. Non si tratta di «difesa della Patria» (art. 52 Costituzione) e non è pertinente il riferimento all’art. 78 della Carta fondamentale (che disciplina la deliberazione dello stato di guerra, ma, ça va sans dire, nel rispetto dei parametri dell’art. 11, ovvero nel solo caso della guerra di legittima difesa); né si può ragionare di ottemperanza a obblighi internazionali, che non possono derogare al ripudio della guerra: l’adesione alla Nato – al di là del fatto che l’Ucraina in ogni caso non è né membro dell’Unione europea né parte della Nato – è legittima, sulla base di un trattato internazionale (non dell’art. 11 Costituzione), fintantoché la Nato è un’alleanza difensiva, solo difensiva (non quando, per intenderci, amplia il suo raggio d’azione con ossimoriche guerre umanitarie o guerre preventive).
La retorica della “guerra giusta” cancella la prospettiva della pace e delegittima lo sforzo teso a perseguirla, prefigurando, nella “migliore” delle ipotesi, il baratro di un conflitto di anni nel contesto di un mondo attraversato da guerre per procura tra imperialismi e con la catastrofe ambientale che incombe e, nella peggiore, il deflagrare del terzo conflitto mondiale o l’avverarsi della minaccia nucleare, normalizzata dalla sua reiterata evocazione, con la «morte universale» (Manifesto Russel-Einstein, 9 luglio 1955). Il discorso pubblico è militarizzato e l’empatia e il dolore che ciascuno sente per le vittime vengono tramutati in una pornografia della sofferenza che alimenta la dicotomia amico/nemico, esacerbando la guerra con i suoi orrori, gli orrori di ogni guerra. Il clima di guerra, con la sua semplificazione, travolge dissenso e pluralismo, ovvero quel conflitto che della democrazia costituisce l’essenza. La guerra, come l’emergenza della sindemia, e prima ancora la c.d. “emergenza migranti”, per non citare la legislazione antiterrorismo, chiude spazi politici, peraltro già ampiamente occupati dall’omologazione del pensiero unico neoliberista.
Resistenza, pace, democrazia (una democrazia sostanziale, effettiva, sociale, fondata sul riconoscimento del conflitto e sulla giustizia sociale) sono inscindibilmente connesse. Resistenza oggi significa, quindi, anche agire per la pace, perseguire con ogni forza il cessate il fuoco e una soluzione pacifica, opporsi al riarmo, cercare di costruire una comunità internazionale che non si riduca a scontro fra imperialismi, nell’unico orizzonte di una ristrutturazione del capitale. Resistenza non significa certo equidistanza, ma stare “dalla parte degli oppressi”, tutti: il popolo ucraino in primo luogo, ma anche coloro che sono vittime in Russia di un regime autoritario che reprime il dissenso, e tutti i profughi dai tanti conflitti che insanguinano il mondo e dai luoghi dove i diritti non sono garantiti (come prevede l’art. 10, comma 3, Costituzione). Non solo: stare dalla parte degli oppressi, vuol dire stare dalla parte dei lavoratori licenziati dalle imprese che delocalizzano, sfruttati nella logistica o nei campi, dalla parte degli studenti che si ribellano alla scuola-azienda, dalla parte di coloro che lottano per la tutela dell’ambiente, dalla parte di coloro che subiscono la violenza dei confini. Resistenza è esercitare spirito critico, comprendere, in senso gramsciano, oltre la cappa di un’informazione monolitica, scardinare una narrazione omologante, mantenere vivo il pluralismo della democrazia e mobilitarsi nella consapevolezza del legame fra pace, diritti ed emancipazione, in contrapposizione a guerra, diseguaglianze e dominio.
La sensazione di impotenza è forte; è facile non vedere, anche volgendo lo sguardo al futuro, altro che «una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine» (Benjamin), ma contro la barbarie della guerra, delle diseguaglianze e dell’estrattivismo distruttivo del neoliberismo, la via è resistere – insorgere –, cercando di unire le lotte contro le varie forme di dominio. Non è un caso che la Costituzione nata dalla Resistenza leghi democrazia politica, sociale ed economica e fra i propri principi ed obiettivi sancisca “pace e giustizia”, ponendosi naturalmente come compagna delle lotte che “dal basso”, su vari fronti, ma nella stessa direzione contraria, agiscono per costruire un’alternativa, un’utopia concreta.