Governo, regioni e legge elettorale: che fare?

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Tre nodi costituzionali vengono, in queste ore, al pettine, intrecciandosi pericolosamente l’uno all’altro.

Il primo nodo è rappresentato dalla verticalizzazione della forma di governo e, al suo interno, del potere esecutivo. Sempre più, nell’ultimo quarto di secolo, il Governo è andato identificandosi nella figura del Presidente del Consiglio, alimentando una distorsione del sistema parlamentare arrivata a tollerare il nome del candidato premier nei simboli elettorali. Come se fossimo in un regime presidenziale. Dal Silvio Berlusconi «unto del Signore» del 1994 al Giuseppe Conte «avvocato del popolo» del 2018 la parola d’ordine è sempre la stessa: «direttismo», il modo in cui Giovanni Sartori aveva (criticamente) definito l’attitudine dei leader a costruire una relazione personale e diretta con il corpo elettorale. Una delle più evidenti conseguenze della centralità assunta non solo dal Governo, ma soprattutto dalla sua figura di vertice è l’incremento delle funzioni, e conseguentemente degli apparati, di Palazzo Chigi (ed è curioso notare come la polemica sui costi della politica, tanto inesorabile quando si tratta dei bilanci parlamentari, mai abbia investito la Presidenza del Consiglio). Non è una questione di numeri, anche se i 750 consulenti del premier, censiti da alcune inchieste giornalistiche, impressionano. È una questione di competenze sottratte ai ministeri e attribuite alla Presidenza del Consiglio: dal commissariamento, di fatto, degli uffici legislativi ministeriali da parte del dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi sino all’apice – inaudito nella sua sfrontatezza – della ventilata attribuzione a sei supermanager dipendenti dal Presidente Conte del cruciale compito di gestire il Recovery Fund.

Il secondo nodo consiste nella configurazione dei rapporti Stato-regioni secondo la logica della sussidiarietà: un principio in base al quale la legittimazione all’azione politica ascende dal basso verso l’alto, a sancire la primazia delle regioni sullo Stato. Da qui sembra scaturire il pregiudizio politico favorevole di cui gli enti territoriali godono nei confronti dell’amministrazione centrale: un pregiudizio tale per cui le regioni possono sempre rivendicare le proprie competenze come originarie, scaricando sullo Stato l’onere di fornire la prova della propria legittimazione ad agire. Non si spiega altrimenti come, nonostante i ripetuti fallimenti nel contenimento della pandemia, le regioni possano persistere nell’assunzione di atteggiamenti arroganti, contraddittori e irresponsabili senza patire conseguenze: nemmeno la revoca in dubbio dei progetti di autonomia differenziata (che, anzi, starebbero per ricevere un’accelerazione). È davvero impossibile immaginare un regionalismo in cui non vi sia spazio – valga un solo esempio – per un presidente di regione che apertamente incita a violare la normativa statale?

Il terzo nodo deriva dall’aver ridotto il numero dei parlamentari senza aver prima modificato la legge elettorale, ingenuamente confidando nella successiva spontanea convergenza delle forze politiche verso un sistema proporzionale. Com’era prevedibile, gli interessi politici immediati e contingenti hanno rapidamente preso il sopravvento sulle nobili intenzioni di lungo periodo, riducendo la discussione sulla più importante delle leggi – quella da cui dipende la formazione della rappresentanza parlamentare – a calcoli spicci di convenienza partitica. Risultato: il Rosatellum è rimasto saldo al suo posto e, in caso di elezioni anticipate, sarà la legge con cui andremo a votare. Tenuto conto che la destra unita sfiora oggi il 50 per cento dei consensi e che, al momento, un’alleanza tra Pd e M5S è quantomeno incerta, cosa questo potrebbe significare è presto detto: alla quasi totalità dei 147 collegi della Camera attribuiti con il maggioritario, la destra potrebbe sommare almeno la metà dei restanti 245 collegi assegnati con il proporzionale (8 sono riservati agli italiani all’estero). Il totale arriva sulla soglia dei due terzi con cui si può modificare la Costituzione senza che sia poi possibile richiedere il referendum oppositivo. Al Senato, con soglie di sbarramento implicite più elevate, per la destra l’esito sarebbe ancora più favorevole.

Aggrovigliati l’uno all’altro, i tre nodi rischiano di farsi matassa inestricabile, suscettibile di soffocare la Costituzione. Occorre al più presto avviare un duplice percorso volto a riequilibrare la forma di governo e le relazioni tra lo Stato e le regioni. Improbabile si possa modificare la Costituzione in un frangente delicato e complicato come quello che stiamo attraversando, ma almeno iniziare a riflettere su una serie di correttivi è urgente e necessario: ridurre lo strapotere del Governo in Parlamento (circoscrivere il ricorso alla fiducia e vietare l’emendabilità da parte del Governo dei suoi stessi decreti-legge), circoscrivere l’ambito delle competenze regionali, abrogare la disposizione che consente il regionalismo differenziato (art. 116, co. 3, Cost.), prevedere che la legge elettorale possa essere approvata e modificata solo a maggioranza assoluta (se non qualificata), rivedere al rialzo le maggioranze di garanzia (in particolare per l’elezione del Presidente della Repubblica e la revisione costituzionale). Nel frattempo, approvare una legge elettorale rigorosamente proporzionale, a collegio unico nazionale e senza soglie di sbarramento (vale a dire una legge che dia a ciascuno il suo, senza favorire o danneggiare nessuno), è un’urgenza non ulteriormente procrastinabile.

Una versione ridotta dell’articolo è pubblicata su il manifesto

Gli autori

Francesco Pallante

Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra i suoi temi di ricerca: il fondamento di validità delle costituzioni, il rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, l’autonomia regionale. In vista del referendum costituzionale del 2016 ha collaborato con Gustavo Zagrebelsky alla scrittura di "Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali" (Laterza 2016). Da ultimo, ha pubblicato "Contro la democrazia diretta" (Einaudi 2020) e "Elogio delle tasse" (Edizioni Gruppo Abele 2021). Collabora con «il manifesto».

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One Comment on “Governo, regioni e legge elettorale: che fare?”

  1. 20-12-20 domenica 21:30ca

    Leader alla guida di un gregge inchinato, la bella faccia sempre prima e a volte sola, questo è quello che negli ultimi anni (decenni) vediamo. Se togliessimo queste statuine belle cosa cambierebbe? Probabilmente ne spunterebbero altrettante.
    S’è persa la linea dei ‘rappresentanti’ del popolo, tutti sullo stesso piano, con le naturali differenziazioni personali. Ignoro chi sia stato eletto dalle mie parti, di qualunque gruppo si parli. Vedo le solite ripetute facce in tv e quindi posso solo giudicare dal sorriso e dalle urla.
    E’ possibile, ormai, dire che è il Parlamento il nostro rappresentante?
    Con ciò, con lo stesso Parlamento che non si propone come tale, ma si adegua, cosa può accadere di diverso che ‘un uomo solo al comando’?
    Salto la parte regionale perchè sostengo che dalla località dovrebbe venira l’indicazione a chi sta al centro. Salto perchè non saprei bene come argomentare.
    La forma di rappresentanza più diretta ho sempre sostenuto dovesse essere quella più corretta: 1 rappresenta 1, 100 rappresentano 100. Gli eletti dovrebbero essere quindi rapresentanti della percentuale di cittadini, votanti, che li scelgono, senza premi o mance immeritate.
    Tutto questo mi rendo conto non è oggi possibile, non è nella realtà delle cose. Resta la consapevolezza dell’impotenza.
    Resta il pensiero critico, ma con lo spauracchio delle maggioranze plebiscitarie prospettate manca la fiducia e la speranza. C’è, cosa c’è, da fare?

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