“Normalizzare”, “convivere”, “endemico”, “rischio ragionato”. Il dizionario della pandemia è stato aggiornato e vocaboli come “lockdown”, “coprifuoco”, “distanziamento sociale” (un ossimoro…), “guerra” hanno lasciato posto a termini usati dalla classe politica e dalla comunicazione mainstream per adeguarsi alla presunta nuova fase. Antonio Scurati sul Corriere della Sera ci invita ad abituarci alla nuova era, ad adattarci, malgrado tutto, alla situazione. In sostanza il virus «farebbe il paio con la crisi ambientale», certamente «entrambi macrofenomeni prodotti o alimentati dagli stili di vita del capitalismo maturo che, sfuggiti al nostro controllo (sic!), ci riporterebbe a uno stato di minorità. Gli inverni pandemici sarebbero dominati dal primo, le estati soffocanti e tempestose dalla seconda». Sotto una critica fuorviante all’antropocentrismo, al “delirio di onnipotenza”, emerge una riedizione del noto “There is not alternative”, coniato a suo tempo dalla Thatcher. Gli fa eco la Repubblica dove Bonanni sottolinea come si senta «la necessità di normalizzare l’emergenza», citando gli esempi che ci arrivano dai governi europei, dalla “progressista” Spagna al nostro esecutivo, non citando Boris Johnson.
Del resto lo stesso Mario Draghi dal suo insediamento ha messo ancora di più la logica economica al primo posto, in armonia con il proprio Dna. Il PIL come il Sacro Gral. E così dopo due anni, come un tragico gioco dell’oca, ci troviamo da dove siamo partiti, con gli ospedali che in mancanza di provvedimenti adeguati sono di nuovo in enorme sofferenza, le scuole con le strutturali carenze fanno i conti con una confusione di interpretazioni e un caos istituzionale, e più in generale l’esecutivo oscilla come un ubriaco tra il «dobbiamo convivere con il virus» e obblighi vaccinali dettati non da rigore scientifico, ma dagli equilibri politici di un governo riedizione da terzo millennio della vecchia “solidarietà nazionale”, quando però, duole dirlo, la classe politica era certamente di un altro spessore, nonostante tutto.
In mezzo c’è la società, caratterizzata da un’assenza di movimenti reali, al di là della generosità di alcuni settori, dai gruppi e i sindacati di base a parte del volontariato, che assiste confusa e spaventata, di fronte alla crescita dei contagi (e all’esponenziale nonché inevitabile aumento dei decessi) alle valutazioni contraddittorie della comunità scientifica, dove imperversano visioni spesso in contrasto tra loro, per non ammettere che in realtà nessuno ci sta capendo molto e che qualunque analisi rassicurante è quanto mai azzardata, mentre da Big Pharma, la Pfizer, ubriaca dei profitti accumulati in questi mesi, annuncia trionfante la preparazione di un vaccino ad hoc per la variante Omicron, come se fosse possibile produrre un antidoto per ogni mutazione importante del virus, ma chissenefrega business is business. Tanto ci stanno ripetendo in modo assillante che la situazione sta diventando “endemica”, cioè ci dovremo abituare a morire di Covid, come ci siamo abituati a crepare di tumori dovuti all’inquinamento, all’alimentazione “drogata” dall’agrobusiness, ai disastri climatici ecc. E chi vuole provare a obiettare, a parlare di alternativa ora è tacciato di “antropocentrismo”, mistificando una critica viceversa giusta che riflette sia sull’Antropocene che sul Capitolocene. Ma il capitalismo è una specie di “Innominato”, e se qualcuno lo cita lo fa come Scurati, dando per scontato che sia una specie di legge naturale.
D’altronde siamo anche il Paese dove il territorio è al 90% a rischio sismico, periodicamente ci troviamo di fronte a eventi tellurici anche tragici, ma nulla si muove sul fronte prevenzione. Siamo il Paese con un ampio dissesto idrogeologico, ma anche lì non si fa nulla, anzi la cementificazione continua, i territori continuano a subire e con loro le popolazioni che ci abitano, e va bene così. La metafora “vivere con il terremoto”, detta un tempo per descrivere le dinamiche “impazzite” dei movimenti di allora, sta diventando “convivere con il capitalismo dei disastri”, per dirla con la Klein. Di solito a questo punto ci si appella al noto “ottimismo della volontà”, ma l’impressione, ahimè, è che stia sempre più prevalendo l’altrettanto noto “pessimismo della ragione”.
Più che pessimismo, lo direi il realismo della ragione.