Su Il Manifesto del 21 agosto scorso, a firma di Pier Giorgio Ardeni, finalmente un articolo all’altezza dei tempi difficili che ci troviamo a vivere ( https://ilmanifesto.it/il-tramonto-delloccidente-e-il-sonno-della-ragione-critica/ ). Con metodo critico e per una volta conseguente, si mettono in fila e soprattutto in relazione le urgenze storiche (crisi ambientale quasi «senza ritorno», crisi pandemica, crisi della globalizzazione), riportandole, direbbero i filosofi, alla loro causa prima, vale a dire «l’agonia raggelata» (Benjamin) in cui versa il capitalismo, ovviamente dal lato delle sue vittime sacrificali, umanità e ambiente (il meccanismo di accumulazione viceversa, sia pure super concentrato, appare tutt’altro che inceppato). A sigillo della tempesta perfetta, la disfatta simbolica, prima ancora che politico-militare, di questi giorni del «blocco occidentale» in terra afghana. Ora, in epoca di falsificazione comunicativa generalizzata, dove si è provato, riuscendoci in buona parte, a far passare il Covid per una sorta di meteorite proveniente dalle profondità dello spazio, è davvero notevole restituire storicità e contenuto concreto al travaglio che l’Occidente tutto sta attraversando in questa congiuntura.
È fuori discussione che il metro più idoneo per leggere il presente sia la «discontinuità», nozione convocata opportunamente da Ardeni, per la semplice circostanza che il tempo della pandemia esige di per sé l’apertura di un’epoca nuova. Ci sarebbe forse solo da essere più cauti nell’adoperare la nozione di tramonto dell’Occidente per una serie di considerazioni che qui di seguito proverò ad enunciare. In primo luogo, la convergenza di più crisi, sia pure di portata storica, non fa un tramonto, ma eventualmente, come si accennava, una crisi più grande che può chiudere un’epoca, quella infausta del capitalismo nella sua parossistica forma accelerata neoliberista, e aprirne finalmente una nuova, ma non certo conchiudere una intera civiltà. Si aggiunga – come ci ricorda Koselleck – che la crisi più che il tramonto rappresenta un po’ il marchio di fabbrica dell’Occidente europeo e cristiano, perlomeno a partire dalle guerre di religione tra Cinque e Seicento. E, poi, adoperare il termine tramonto espone a un rischio esiziale, quello di far coincidere la complicata e controversa storia dell’Occidente con l’univoco vettore della modernità capitalistica, pur decisivo, per cui la sua crisi irreversibile, sul versante sociale e ambientale, coinciderebbe con la totalità della civiltà che l’ha espressa. Tranne non volersi riferire al capitalismo come esito necessario dell’intera metafisica occidentale, come pur prova a fare una certa tradizione di pensiero di ascendenza heideggeriana. Ma questo più che audace approccio ermeneutico non pare possa cogliere nel segno.
In effetti, l’Occidente è stato nella sua storia tutto tranne un solido cristallo, attraversato da correnti culturali spesso in tensione se non apertamente antitetiche. È indubbiamente lo spazio geografico di elezione del moderno capitalismo, ma nel contempo dei suoi più acerrimi e accaniti nemici. Senza dimenticare la prima e più fondamentale radice della civiltà occidentale, la Grecia, che ha continuato a plasmare la mentalità occidentale ben oltre l’avvento del Cristianesimo. L’Occidente è molto di più del solo capitalismo, contiene una riserva di senso, per fortuna, difficilmente neutralizzabile. E poi pur volendosi riferire alla sola sua seconda radice, il Cristianesimo, come non rammentare all’interno di quest’ultimo il peso specifico e affatto marginale di Assisi? A margine, anche una considerazione più spiccia sull’incapacità strutturale della generazione che eventualmente lo stia vivendo a riconoscerlo e nominarlo, il tramonto. La crisi e poi la caduta dell’Impero Romano d’Occidente avvenne, ricordiamolo, nella più totale inconsapevolezza dei coevi. Per non parlare della retroazione devastante, in termini di passività e rassegnazione, nella consapevolezza collettiva di vivere un’età della fine.
Del resto è lo stesso autore che opportunamente corregge il tiro quando afferma nel passaggio forse chiave, che «oggi assistiamo al tramonto di un sistema, impostosi grazie all’affermazione del capitalismo, basato su uno sfruttamento che non conosce limiti e lo vediamo negli incendi che divorano foreste e prosciugano fiumi, nelle alluvioni bibliche, nel propagarsi di virus zoonotici che proliferano negli eco-sistemi alterati che non sappiamo fare fronte, se non ricorrendoli con vaccini che non fanno che arginarli». Un distanziamento di questo tipo, tra Occidente e capitalismo, aiuterebbe poi a convertire il grido di dolore giustamente lanciato, sull’assenza quasi totale di pensiero critico («di fronte al quale il pensiero antagonistico, alternativo o semplicemente critico, pare spento»), in un programma accanito di ricerca e di studio che porti alla riscoperta di veri e propri giacimenti di sapere critico troppo in fretta dismessi.
Oramai è evidente anche ai sassi che occorre una svolta e che le tecnologie capitalistiche al servizio del profitto, e non dell’umanità, non salvano ma conducono a una lenta ma inesorabile «corsa folle verso l’annientamento». Occorre riprendere in mano la «cassetta degli attrezzi» (Foucault) contenente in primis nuovamente Marx e, del marxismo, i pensatori più eretici e originali (Lukàcs e Bloch, su tutti). E ritornare a uno studio serio e approfondito del Gramsci dei Quaderni, che non si limiti alla pur centrale categoria dell’egemonia ma approfondisca e sviluppi la sua critica spietata al liberismo. Anche il pensiero dialettico nella sua valenza olistica e processuale andrebbe riabilitato, sia pure in assenza di un «soggetto rivoluzionario», perché di suo contiene una carica euristica irrinunciabile, pena lasciarlo nella sola disponibilità dei poteri dominanti come la teologia politica. Sia consentito poi richiamare da ultimo la prima generazione della Scuola di Francoforte. Ardenti giustamente cita Benjamin e la sua formidabile decostruzione del concetto di «progresso». Ma come non riprendere a studiare un gigante del pensiero come Adorno, che con la sua «dialettica negativa», tutt’altro che rassegnata, mette in guardia dal rovesciamento sempre possibile della ragione illuministica, se astrattamente intesa, nell’intolleranza e finanche nella caccia alle streghe, come l’attualità più stringente si sta incaricando di dimostrare.
L’articolo di Ardeni può, dunque, rappresentare uno stimolo di ricerca, al riparo tanto dai bollettini ufficiali a cui si stanno riducendo i tg e i talk show politici quanto dalla sconclusionata bagarre che va in onda sulla rete: un buon viatico insomma per chi ancora dentro di sé, e sono tanti, conserva la passione durevole del «sogno di una cosa».