Covid-19: la confusione regna sovrana

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20 di ottobre: un giorno qualsiasi di cronaca. Il mondo parla del ritorno della democrazia in Bolivia con la vittoria di Arce, della resistenza della rivolta in Thailandia contro un regime corrotto e di altri tempi, della “coerenza” di Trump nell’accusare non importa chi del fallimento della sua politica di negazione della realtà del Covid-19, della Cina che riprende a crescere economicamente dopo il Covid-19…

La cronaca italiana registra gli aggiustamenti delle misure prese in tormentate riunioni notturne del Governo per controllare la tanto annunciata seconda ondata: si sposta di un’ora la chiusura dei locali, si annuncia un coprifuoco per ore di cui è misterioso il possibile impatto sulla diffusione dei contagi, si intrecciano notizie contraddittorie sulle disposizioni più o meno restrittive delle regioni rispetto a tracciamento-contenimento dei contagi, crescono allarmi sulla saturazione dei posti letto nelle terapie intensive e/o sulla carenza più drammatica e senza risposte di personale per gestirle, continuano i bollettini che documentano senza spiegazioni le grandissime variazioni del rapporto tra tamponi eseguiti e nuovi casi, la politica riproduce le schermaglie intra e inter partiti sui fondi europei, si suggerisce che la soluzione sarà nel mantra dei vaccini disponibili entro settimane o mesi non si sa da parte di chi e per chi, si propongono o minacciano lockdown totali o parziali… Lo scenario è perfetto nel documentare che la confusione è protagonista al punto da apparire programmata e/o irresponsabile, che è la stessa cosa dal punto di vista del rapporto tra “autorità” e cittadini condannati a essere spettatori-oggetto di informazioni fatte per creare timore (non coscienza collettiva dei problemi reali, e da affrontare in modo partecipativo). Certo, si può dire, gli altri paesi non vanno meglio: eventualmente, per consolarsi e affermare che le “autorità”, politiche e scientifiche, fanno bene il proprio dovere, si può dire anche peggio.

Può essere utile, allora, l’esercizio di chiamare alcune cose per nome, come antidoto culturale (e perciò forse anche politico) per non cronicizzare il ruolo del Covid-19 da agente potentemente contagioso, e letale per minoranze che sono sempre “in eccesso”, a fattore di ulteriore perdita di democrazia:

1) non è più tollerabile una politica informativa basata su numeri, denominatori e numeratori, percentuali, differenze e via elencando, manifestamente non comparabili né comprensibili, che ricevono commenti disparati, da esperti e meno esperti. Una informazione corretta e valutabile, accompagnata da commenti comprensibili, che metta in evidenza le cose essenziali e certe, e nello stesso tempo quelle incerte, più o meno probabili, è il primo e imprescindibile livello di democrazia. È impensabile la credibilità e il rispetto condiviso delle decisioni che vengono prese, a livello centrale e/o regionale e/o locale, se ognuna di queste decisioni non è chiaramente motivata, quando viene presa o modificata;

2) una posizione esplicitamente concordata (con il grado di consenso o dissenso raggiunto) tra le tante “commissioni” sulle decisioni prese deve essere collegata alle attese di risultati che si prevede di ottenere: in termini di benefici sanitari e di impatto sull’economia e/o sugli equilibri sociali. Comunicare anche il grado di incertezza esistente è il primo requisito di credibilità per una informazione che si pretende “scientifica”. Non si può lasciare il commento o la discussione dei dati alla sotto-cultura dei talk-show e del confronto più o meno personalizzato tra gli “esperti”;

3) la libertà della stampa o dei social su questi temi è benvenuta se si confronta con informazioni di riferimento la cui autorevolezza è documentata e trasparente. È tutta la società che è esposta a una vera e drammatica “sperimentazione” nell’affrontare un’emergenza rispetto alla quale l’ignoranza scientifica è tuttora più grande delle conoscenze. Come nelle sperimentazioni cliniche, la legittimità di quanto si chiede di fare è garantita solo quando l’informazione data è accessibile, cioè compresa e discussa, dai soggetti coinvolti;

4) sembra incredibile che non sia previsto, richiesto, reso disponibile un consenso, per quanto dibattuto, tra i responsabili scientifici (epidemiologi, clinici ospedalieri e di medicina generale, infermieri…) delle varie regioni, che sono di fatto i responsabili operativi e gli osservatori insostituibili della diversità dei bisogni e delle carenze da affrontare nei diversi contesti. Le tante affermazioni falsamente ottimistiche sulla necessità di fare della crisi un’opportunità possono divenire credibili solo se passano, senza ulteriori ritardi, per un esercizio di confronti trasparenti e verificabili di punti di vista e di strategie: con l’impegno di verifiche dei risultati che saranno ottenuti con modalità comparabili di interventi e di raccolta di dati;

5) non ci sono in questo momento, né in Italia né altrove, strategie generali di “tracciamento” dei contagi: né con mitiche app (Immuni o altre), né con modelli o algoritmi che pretendono di affrontare domande tanto diverse come quelle che riguardano contesti urbani o fortemente dispersi, scuole, ambienti di lavoro più diversi, assembramenti giovanili, popolazioni “fragili”. È proprio impensabile un accordo (nella logica sopra ricordata di collaborazioni tra diversità) da parte di “esperti” e/o commissioni, per procedere a campionamenti mirati per la diversità dei contesti/popolazioni esposti a rischio sopra ricordati? Non solo, né forse prevalentemente, per tracciare contagi, ma per verificare la provenienza, la storia sociale e culturale, la evitabilità dei casi più gravi, così da ottimizzare i percorsi assistenziali?;

6) il capitolo dei “tamponi” incrocia uno dei nodi più scandalosi e irresponsabili già dalla prima ondata: è semplicemente incredibile ‒ per quanto è noto e denunciato ‒ che a Milano (per fare solo un esempio) si possa fare un tampone a pagamento, con prezzi variabili da centinaia a decine di euro, in strutture private o convenzionate e avere il risultato in poche ore e che si debbano aspettare giorni (e perfino settimane) quando la richiesta passa per le vie formali anche della medicina generale. Le cause e i bisogni sono noti. Come pure le responsabilità e i rimedi tecnici e organizzativi. Le politiche e gli interessi in conflitto devono rimanere intoccabili?

L’esercizio di chiamare per nome alcuni problemi che toccano la democrazia (ben al di là dell’apparente tecnicità di alcuni aspetti) potrebbe continuare. Senza pretese di completezza. E tanto meno di originalità. L’esercizio proposto, strettamente personale, ma verificato con tante persone più “esperte”, e in tanti contesti assistenziali, in questi tanti mesi che dovevano preparare al “dopo”, ha come retroterra un ricordo che rimanda agli scenari di guerra tanto spesso evocati per il Covid-19. Alla vigilia, e durante Caporetto i generali avevano pensato che fosse loro dovere trovare ed eliminare i colpevoli: soldati semplici, e non solo. Era la loro responsabilità “politica”, e di sicurezza. C’è voluta molta storia, dal basso, per raccontare la vera storia. Non siamo a Caporetto. Ma non sappiamo quanto durerà la “confusione” e il palleggio di responsabilità da cui si è partiti (avendo tralasciato, ma non dimenticato, il peso determinante in questa vicenda degli attori, politici e non, con interessi economici: le prime fasi “bergamasche” o “lombarde” della tragedia di marzo-aprile lo insegnano).

In Italia, ma non solo, la pandemia Covid-19 (lo riconoscono in modo esplicito i giornali medico scientifici più autorevoli, dal NewEngland Journal of Medicine, a Lancet) è senz’altro un test dei limiti e dell’attuale impotenza della scienza medica: più a fondo lo è della tenuta della civiltà delle nostre società. Nessun virus è stato democratico.

Gli autori

Gianni Tognoni

Gianni Tognoni, medico, è esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. E' stato direttore del Consorzio Negri Sud. Attualmente opera nel Dipartimento di Anestesia-Rianimazione e Emergenza-Urgenza , Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. E' presidente delComitato Etico, Università Bicocca, Milano.

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