L’errore è quello di considerare sacrali il Comitato olimpico internazionale (CIO) e le sue regole. Al contrario l’accelerazione impressa alla realtà dal marketing e dal mordace irrompere sulla scena sportiva di discipline che un tempo si sarebbe fatta fatica a considerare come sport ha provocato un veloce e imprevedibile cambio di scena. Il posto sotto i riflettori nel programma olimpico non è più scontato, bisogna meritarselo.
Tolti gli sport di indiscutibile e popolare presa, irrinunciabili nel bouquet dei Giochi (calcio, basket, pallavolo, nuoto, atletica leggera) tutti gli altri sgomitano per assicurarsi la sopravvivenza in vita (olimpica) mentre altri, apparentemente fuori contesto, cercano di trovare un adeguato spazio luce. Ci riferiamo in particolare ai videogiochi, sdoganati come esports, già inseriti a titolo sperimentale nel menù dei Giochi asiatici, assecondando l’aura virtuale di quel continente. Qui contano i fatturati e i praticanti, sono queste le cifre a cui il CIO è sensibile, più che all’ortodossia della prestazione, delle regole e della tradizione.
Oggi appaiono obsolete discipline come il salto il lungo da fermo, così come nello sport di inizio ’900 la donna era off limits da specialità giudicate di pura fatica e oggi battutissime (la maratona e i 50 km di marcia, per esempio). Intanto la storia corre veloce e i videogiochi mettono in campo un miliardo di euro di fatturato nel corso del 2018 e una buona presenza tra i sette miliardi di viventi.
Peraltro la coerenza e la logica fanno a pugni con molte scelte. Il mondo del karate (150 Paesi lo praticano) aveva appena fatto in tempo a celebrare il faticoso ingresso nel programma dei Giochi del 2020, a Tokyo, facendo i conti con l’ostacolo di due diversi stili relativi ad altrettante federazioni, che si accorge di avere buone probabilità di venire depennato dal cast dei Giochi 2024 in favore della breakdance. Contano l’appeal televisivo, i contratti, la brevità dei tornei. Ma la credibilità è fatta anche di continuità. Chi glielo dice a milioni di praticanti che il sogno di inclusione si interrompe, che la partecipazione olimpica del 2020 sarà un puro spot senza possibilità di ripetersi?
E che fine faranno surf, arrampicata sportiva e skateboard, le coeve new entry del 2020?
La notizia dell’esclusione del karate è spiazzante anche considerando che la Francia (Paese che ospiterà i Giochi 2024) conta per questa disciplina su 255.000 tesserati distribuiti su 5000 club. Il presidente italiano Falcone esterna amarezza ma anche speranza: «La volontà del CIO è quella di andare verso discipline accattivanti e giovani. Ma certo il karate, di recente adozione olimpica, non si sente vecchio. La nostra aspettativa è quella di riprendere un percorso traumaticamente interrotto già nel 2028, quando potremo essere “sport ufficiale”. Sta a noi non smettere di crederci, presentandoci nel migliore dei modi nel 2020, quasi dimostrando a priori la validità dell’inclusione».
Per il possibile rientro nell’edizione 2028 prevista a Los Angeles, tutto dipenderà dall’orientamento del CIO, che nel 2021 si riunirà per decidere quale tra i 28 sport olimpici attuali potranno essere aggiunti a titolo definitivo nel 2028. Il karate si ispira al confratello, judo che fece il suo debutto olimpico a Tokyo nel 1964, vedendosi escluso dal programma del 1968, per poi tornare in auge nell’edizione di Monaco 1972. Un precedente che fa ben sperare non solo gli appassionati di karate ma anche chi ha a cuore la linearità delle scelte olimpiche.