Tra la Bielorussia e la Polonia muore (anche) il diritto

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1.

Da tempo, gli Stati dell’Unione europea sono interessati da ondate migratorie senza precedenti (nel solo anno 2015 sono giunte sul suolo europeo quasi un milione di persone). Com’è noto, questo fenomeno è stato descritto come crisi europea dei migranti o dei rifugiati, enfatizzandone il presunto carattere transitorio: una “crisi”, in linea di principio, consiste in una situazione di cambiamento improvviso dello status quo che non dovrebbe protrarsi fino al punto da diventare una nuova normalità.

Tuttavia, nel caso della gestione dei flussi dei cittadini di Paesi terzi, si assiste oggi al consolidarsi di una “permanente emergenza” migratoria, ossimoro meramente descrittivo dell’approccio che influenza da tempo le scelte del legislatore italiano e di quello europeo, quando si tratta di dover scegliere gli strumenti normativi più idonei a regolare l’arrivo (ma anche il soggiorno e l’espulsione) degli stranieri. La tendenza consolidata in seno agli Stati UE è quella di ricorrere alla privazione della libertà per “gestire il migrante”, sia nel caso in cui egli sia irregolare sul territorio, sia quando egli richieda protezione internazionale alle autorità dello Stato ove si trova. Come ha segnalato Jerome Phepls (ex direttore di International Detention Coalition), «negli ultimi due decenni c’è stata un’espansione enorme dell’uso della detenzione come strumento centrale nella gestione della migrazione. In genere i Governi la vedono come un mezzo fondamentale per il rimpatrio dei migranti. Tuttavia, ci sono davvero poche prove della sua efficacia» (https://openmigration.org/analisi/la-detenzione-e-effettivamente-necessaria-ed-efficace-nella-gestione-della-migrazione/). Si tratta di una detenzione che – per distinguerla formalmente da quella conseguente all’irrogazione di una sentenza di condanna all’interno del processo penale – viene definita pudicamente “amministrativa”, in quanto disposta dall’Autorità di pubblica sicurezza nei confronti di persone che non hanno compiuto un reato bensì hanno violato le norme del diritto dell’immigrazione dello Stato membro o, in altro caso, stanno attendendo l’esito della procedura di asilo che li coinvolge.

A tacere delle garanzie pressoché inesistenti a favore del migrante, ciò su cui vale la pena riflettere è la non chalance con cui sia il diritto internazionale che il diritto dell’UE riconoscono la legittimità di tale strumento (di fatto punitivo) come potere necessario dello Stato. Su questa scia, può ben affermarsi che le politiche migratorie degli Stati UE sembrano seguire un approccio molto più incentrato sul ricorso a misure privative della libertà che al rispetto – effettivo, concreto ed efficace – dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti nelle pertinenti procedure.

2.

I recenti episodi avvenuti al confine tra Polonia e Bielorussia non sono che l’epilogo – purtroppo tragico – del fallimento annunciato di siffatte politiche di governance dell’immigrazione. Migliaia di migranti, di origine per lo più mediorientale, sono ammassati al confine e stanno cercando di oltrepassare la barriera di filo spinato che separa il territorio tra Polonia e Bielorussia (governata sin dal 1994 dal presidente-dittatore Lukashenko). La crisi va avanti da inizio estate, ma ha raggiunto l’acme a novembre (https://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2021/11/09/migranti-bielorussia-polonia). I migranti si trovano in situazione disperate, dovendo sopportare condizioni climatiche proibitive (per via del gelido inverno bielorusso). Ma neppure il decesso (per freddo) di un bambino di appena un anno ha cambiato l’approccio di chiusura del Governo polacco, che non intende assolutamente ammettere i migranti sul proprio territorio.

Polonia, Lettonia e Lituania sostengono che questo nuovo flusso di stranieri sia stato creato artificialmente dal regime di Lukashenko, che starebbe mettendo “sotto pressione” l’UE utilizzando i migranti come “arma” per vendicarsi delle sanzioni imposte dall’Europa contro la Bielorussia (sanzioni che l’UE ha imposto dopo le elezioni bielorusse del 2020, viziate da pesanti brogli secondo tutti gli organismi internazionali e che hanno sancito la settima rielezione di Lukashenko alla presidenza del Paese). Al di là delle strumentalizzazioni politiche, però, ciò che sconvolge è il fatto questi migranti si trovino «schiacciati tra il cinismo e la brutalità di Minsk e l’intransigenza di Varsavia» (https://courrierdeuropecentrale.fr/minsk-accroit-la-pression-migratoire-sur-la-frontiere-polonaise-au-risque-dune-escalade-des-violences), dal momento che il Governo polacco ha prima annunciato di voler costruire una barriera di cemento lunga 200   km e alta 6 metri per ostacolare l’arrivo degli stranieri e, poi, ha emanato una legge speciale che permetterà agli agenti di frontiera di “ignorare le richieste di asilo” provenienti dai migranti, qualora questi riuscissero a superare il filo spinato (https://www.linkiesta.it/2021/11/la-crisi-dei-migranti-tra-polonia-e-bielorussia-e-il-rischio-di-una-escalation-militare/). Si tratta, come è facilmente immaginabile, di norme incompatibili con il diritto dell’Unione, in particolare con gli articoli 18 e 19 della Carta dei Diritti fondamentali UE, che regolano il diritto di asilo (in accordo con la Convenzione di Ginevra) e il divieto di espulsioni e respingimenti collettivi (che i migranti, purtroppo, stanno giù subendo da parte delle autorità polacche).

A livello giuridico, la questione è complessa. Il dato di partenza è che se lo straniero non giunge sul territorio dell’UE o al confine di uno Stato membro non ha diritto a chiedere asilo. Pertanto, per evitare una valanga di richieste di protezione internazionale, la Commissione UE e l’Agenzia Frontex (guardia di frontiera europea) hanno da sempre sfruttato una zona grigia dei trattati, i quali non vietano ufficialmente di impedire l’ingresso nel territorio, prerequisito fondamentale per chiedere protezione (https://www.ilpost.it/2021/11/24/europa-bielorussia-polonia/). Impedendo l’ingresso degli stranieri – e mantenendoli ai confini, senza consentirgli di entrare nello Stato UE –, il diritto di chiedere asilo viene svuotato di fatto di ogni rilevanza. Mentre, secondo una sentenza del 25 giugno 2020 della Corte di giustizia UE, lo straniero, qualora manifesti la volontà di chiedere protezione internazionale agli agenti di frontiera, acquisisce immediatamente la qualifica di «richiedente protezione internazionale», con tutte le connesse garanzie: proprio quello che le autorità polacche – con il sostegno esplicito della Commissione UE – vogliono evitare.

A riprova del fatto che la situazione è più grave (se possibile) di quello che appare, recentemente le autorità polacche hanno negato l’accesso all’area di confine di cinque eurodeputati, sfruttando le norme sullo stato di emergenza vigente in quella zona dal 2 settembre scorso. Il 1° dicembre, poi, tale misura è stata prorogata per altri tre mesi, con ratifica del Presidente Duda (del partito di estrema destra ed euroscettico PiS, punto di riferimento europeo di Fratelli d’Italia), che impone un divieto di accesso nell’area di confine a giornalisti e operatori di organizzazioni non governative.

3.

Questo “confine nel confine” segna simbolicamente l’inizio di un luogo – anzi, di un “non-luogo” – ove il diritto di asilo e, più in generale, i diritti fondamentali vengono di fatto sospesi e dove, addirittura, viene resa punibile con il carcere la semplice condotta di portare cibo e acqua a chi ne ha bisogno (https://www.editorialedomani.it/idee/voci/Polonia-Bielorussia-migranti-Unione-europea-Majorino-eurodeputati-ws2fu2h1).

La risposta della Commissione UE alla crisi migratoria tra Polonia e Bielorussia è francamente sconfortante. Una proposta di “misure eccezionali”, che sospendono le normative europee vigenti in materia di asilo e di rimpatri, è stata presentata il 1° dicembre dal vicepresidente della Commissione Schinas. Tali disposizioni, se approvate, varranno per sei mesi solo per Polonia, Lettonia e Lituania, e consentiranno di registrare la domanda di asilo eventualmente presentata dallo straniero presente al confine entro un termine di 4 settimane (attualmente è dai 3 ai 10 giorni). La risposta delle autorità competenti potrà arrivare entro 16 settimane (erano 4 quelle inizialmente previste). Durante il periodo totale di 20 settimane, il migrante – che nel frattempo avrà acquisito lo status di richiedente protezione internazionale – potrà essere privato della propria libertà secondo l’art. 8, par. 3, lett. c della direttiva Accoglienza. La risposta dell’Europa, pertanto, sembra essere ancora quella di consentire agli Stati membri di sfruttare lo strumento detentivo come dispositivo privilegiato, senza tener conto della gravissima crisi umanitaria in atto e dei diritti fondamentali in gioco.

In questo frangente temporale il rischio di respingimenti sommari ed espulsioni collettive – pratiche teoricamente vietate dal diritto UE (in quanto, in base alla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’UE, il richiedente ha diritto di rimanere sul territorio dello Stato ove presenta la domanda nelle more della decisione sulla stessa) – aumenta in modo preoccupante. Inoltre, tra le varie misure eccezionali della proposta citata, vengono previste disposizioni ad hoc per velocizzare i rimpatri, cosa che conferma la volontà del legislatore UE di gestire la vicenda privilegiando – e potenziando temporaneamente – l’efficienza del sistema di allontanamento degli stranieri piuttosto che assicurare loro i diritti fondamentali di cui sono titolari, in quanto esseri umani.

Gli autori

Lorenzo Bernardini

Lorenzo Bernardini (l.bernardini2@campus.uniurb.it) è dottorando di ricerca in Global Studies nella Università degli studi di Urbino «Carlo Bo»

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