M’hai detto un prospero!*

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“Una grande politica di transizione ordinata da un settore industriale energivoro e basato su produzioni tutto sommato tradizionali (dalle auto agli stessi computer, che sono ormai dei piccoli elettrodomestici prodotti a milioni e con grande automazione) verso settori produttivi ad alta intensità di lavoro. I settori di riferimento sono moltissimi: i beni culturali, l’incremento dell’efficienza energetica e nell’utilizzo di materia, la ristrutturazione degli edifici (si pensi che metà delle scuole non è ancora a norma dal punto di vista della sicurezza) o il dissesto idrogeologico, che costa all’Italia circa 12-15 miliardi di euro l’anno: una somma che potrebbe essere investita per creare centinaia di migliaia di posti di lavoro su un’ ampia fascia di competenze professionali, che vanno dal badilante al geometra e all’architetto. Si tratta di un processo di transizione che richiederebbe però una robusta politica industriale da parte del Governo, invece questi blaterano di crescita e spesso non sanno nemmeno bene di cosa stiano parlando.” Così, e correva l’anno 2015, scriveva nel suo Finanzcapitalismo il mai abbastanza compianto Luciano Gallino. Dubito che il nostro turibolato nuovo Presidente del Consiglio abbia letto quel libro. E se l’avesse fatto, non credo l’avrebbe approvato. Suppongo anche che, al momento della formazione del governo, ministri e sottosegretari compresi, per digerire certe nomine avrà fatto ricorso al suo fervido cattolicesimo, così fervido da fargli accettare inviti alle riunioni di Comunione e Liberazione in quel di Rimini (chissà se vi ha incontrato anche Formigoni, benemerito di quella riforma della Sanità che, in nome della magica parola ‘sussidiarietà’, tanto bene ha fatto ai lombardi). Che cosa non si sopporta per salvare la Patria… Ma riuscirà poi a salvarla? Personalmente ne dubito.

Non c’è solo la pandemia da fronteggiare. Ci sono i giovani, per fare un esempio drammatico. Quelli benestanti, almeno quelli che non si drogano, vanno all’estero. Gli altri, come scrive Adriano Prosperi in Un tempo senza storia, “tra i 18 e i 24 anni non studiano, non hanno un lavoro e non lo cercano”. E quando lo cercano e magari lo trovano, sono lavori sottopagati e precari. In ogni caso quasi nessuno si preoccupa concretamente del loro disagio, della loro impossibilità di ritagliarsi un posto, anche piccolissimo, nel mondo: si invoca la parola magica, “sviluppo” (pronunciata come quando in bocca si assapora e si ciuccia un boero, facendo schioccare la doppia p), e si scuote desolati il capo, come fosse tutta colpa dei giovani “che non sono più quelli di una volta”. E nessuno che ripassi gli scempi compiuti nella scuola dalla Moratti o dalla Gelmini, tanto per fare due nomi che, ahimé, ricorrono anche oggi in altri incarichi. Condizioni precarie e sfruttamento sono peraltro diffusi in tutte le fasce d’età: ognuno di noi potrebbe raccontare storie di regressioni a condizioni ottocentesche.

Ma il problema dei giovani non è certo il solo. Dovunque si volga lo sguardo è evidente che la politica, quella vera, non quella che si limita a gestire la spartizione degli avanzi, non esiste più. O, più precisamente, non ha più potere soprattutto perché il potere reale le passa sopra la testa. La gestione è altrove, non più nei parlamenti, ma nei mercati finanziari.

In proposito è chiara l’intervista di Nicola Dimitri a Bruno Montanari  su   “Pandora” (https://www.pandorarivista.it/articoli/effettivita-del-potere-e- sovrastrutture-mediatiche-intervista-a-bruno-montanari/): “Le istituzioni politiche dipendono dai mercati finanziari e la politica può solo benedire e ancora per un po’ vivere parassitariamente.” E l’intervistatore, nella conversazione, cita a sua volta anche Gustavo Zagrebelsky: “La parte più importante delle decisioni che riguardano   la   nostra   vita   è   ormai   collocata   su     una scala dimensionale   sulla   quale   gli   Stati   non   hanno   più   presa”. Globalizzazione e informatica vanno insieme e si potenziano a vicenda, eliminando dal loro orizzonte la mediazione politica. Anzi, la mediazione in genere:  nella Rete uno vale uno, conoscenza esperienza professionalità rischiano di diventare delle ubbie da vecchi accademici. Ma se “uno vale uno”, e in più io posso spostare dove mi è più comodo i miei ricavi di borsa, è poi difficile che il gioco politico non si riduca a chiacchiera e spartizione degli spiccioli. Ministri, viceministri, sottosegretari come tanti piccioni che si contendono le briciole gettate loro per la foto ricordo sul sagrato.

A me sembra chiaro che, anche senza Coronavirus, andremo comunque a sbattere. Ecologisti e scienziati indipendenti lo ripetono da anni: il famoso libro del Club di Roma, I limiti dello sviluppo, è del 1972, e da allora ci sono ormai biblioteche sul tema. Tamquam non essent… Allo stesso modo vengono ignorati, quando non disdetti, i famosi Accordi di Parigi e i richiami dell’ONU. Sempre in nome dello sviluppo, naturalmente. Eppure ci sono concessi ormai pochissimi anni per un cambio di rotta ancora parzialmente possibile (alcuni punti di non ritorno, 9 su 30, dicono gli esperti, sono già stati irreparabilmente superati). Ma noi abbiamo il Ministero della transizione ecologica (suona bene, eh?) affidato al professor Cingolani, grande sodale del noto ecologista Renzi e frequentatore della Leopolda, nonché fondatore dell’Human Technopole nel cuore di MIND, Milano Innovation District (tutto un programma fin dal nome: Bertolaso si sarà mangiato le unghie per l’invidia) là dove c’è stata la buccinatissima Expo di Milano e dove, dopo, sarebbe dovuto sorgere un grande parco, polmone verde a Ovest di Milano. Immagino l’entusiasmo di Guido Viale, di Franco Arminio, di Luca Mercalli e tanti altri. E anche di Giuseppe De Rita, che da sempre giustamente propone, inascoltato, la messa in sicurezza e la rivalutazione agricola, paesaggistica, stradale, ferroviaria, gastronomica, turistica, di tutta la dorsale appenninica da Piacenza alla Calabria: un territorio vastissimo, penalizzato dallo sviluppo delle due fasce costiere sull’ Adriatico e il Tirreno e potenzialmente una risorsa quasi inesauribile. Invece Cingolani si entusiasma: “Gli agglomerati urbani diventano un motore fondamentale verso un futuro più sostenibile, resiliente, prospero e climaticamente neutro. (…) Le città attraggono talenti e investimenti, la concentrazione di persone favorisce una più rapida diffusione della conoscenza e un più alto tasso di innovazione e stimola lo sviluppo di infrastrutture intelligenti e digitali. (…) [Le città sono anche] un terreno fertile per soluzioni basate sulla natura, che promuovono la gestione del rischio e la resilienza, riducono l’impronta ecologica dei residenti e forniscono benefici per la loro qualità di vita”. Qualunque cosa tutto ciò voglia dire.

Ma poi il ministro Cingolani si metterà in contatto col collega Enrico Giovannini, neoministro delle infrastrutture, che con ben altro spessore culturale e politico parla di “città sostenibili”?  E citando Giovannini si pensa anche a Fabrizio Barca, che con l’attuale ministro ha scritto l’anno scorso Quel mondo diverso, Laterza, utile per analisi e proposte, uno dei tanti libri usciti in questi mesi dai quali si potrebbe facilmente estrarre un programma vero per un futuro sostenibile. Dice Barca: “Ai territori serve progettualità, non sussidi e grandi opere”. Credo che continuerà a essere inascoltato, come i tanti che, anche da orientamenti politici diversi, in tutti questi mesi hanno scritto e proposto modelli alternativi all’attuale assetto globale. Accetto scommesse.

*Detto romano per rispondere a chi presenta come facile un’azione o un progetto in realtà difficile o addirittura impossibile. “M’hai detto un prospero!” è un detto romanesco

Gli autori

Gianandrea Piccioli

"Una lunghissima esperienza alla guida di marchi storici, prima Garzanti, poi Sansoni, più tardi Rizzoli, ancora Garzanti, a settant’anni è considerato uno dei grandi saggi dell’editoria («Ma che esagerazione, sono solo capitato fra le due sedie: dopo i grandi e prima del marketing»), cresciuto alla Corsia dei Servi, l’eretica libreria milanese che negli anni Sessanta mescolava Bellocchio e padre Turoldo. Passo resistente da montanaro, è abituato a scalare le vette impervie di giganti quali Garboli o Garzanti, Steiner o Fallaci. L’editoria che incarna è molto diversa da quella attuale, «per imparare il mestiere non ti portavano a fare i giochi di ruolo in luoghi esotici». Quasi dieci anni fa la decisione di lasciare, «perché il mondo era cambiato e non riuscivo più a intercettare il mutamento». Oggi il suo sguardo appare molto nitido, nutrito di letture meticolose condotte nel buen retiro di Rhêmes o nel silenzio di Casperia, un borgo medievale nell’alta Sabina. «La crisi dell’editoria è una crisi culturale. Si fanno troppi libri, molti anche interessanti, ma oscurati dalla censura del mercato. E soprattutto le case editrici hanno rinunciato a un progetto, a una visione complessiva che suggerisca un’interpretazione del mondo»" [da https://ilmiolibro.kataweb.it].

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