
Nelle meritorie Edizioni dell’asino è da poco uscito un libretto prezioso che in 80 pagine fa capire il baratro morale in cui siamo caduti (anche noi “di sinistra”, sia chiaro, anzi noi forse più di altri perché ci credevamo i migliori). Si tratta di: Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza. È un libro a più voci, anche se il corpo principale è costituito da tre articoli che il filosofo Pietro Chiodi dedicò a Beppe Fenoglio, che era stato suo allievo, di soli sette anni più giovane, al liceo Govone di Alba. Li precedono una prefazione di Alberto Cavaglion, che contestualizza i testi, e un saggio di Cesare Pianciola, curatore del libro, che inquadra Chiodi filosofo (autore a sua volta di uno dei più bei libri sulla Resistenza, Banditi, Einaudi 2015, ma la prima edizione a cura dell’Anpi è del 1946) nel contesto storico e culturale dalla Resistenza alla morte, nel 1970. Li segue un saggio di Gabriele Pedullà, Pietro e Beppe, a sua volta uscito in G. Cambiano e C. Pianciola, Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance 2017.
Segnalato in questo modo, da pedante scheda bibliografica, Beppe Fenoglio e la Resistenza può sembrare un libro miscellaneo, un’insalata russa raffazzonata per ragioni editoriali. Invece il lavoro fatto dal curatore Pianciola dà una compattezza di contenuto che costringe il lettore a confrontarsi con un mondo e con figure remoti nel tempo ma attualissimi per i problemi morali e politici evocati. Qui non importa tanto la grandezza indubitabile di Fenoglio scrittore (“Fenoglio viene considerato sempre da più critici il massimo narratore italiano del secondo Novecento” si sbilancia Gabriele Pedullà) quanto la tempra morale di quella generazione che fece la Resistenza, magari in schieramenti diversi (Fenoglio era badogliano; Chiodi prima con Giustizia e Libertà, poi, fatto prigioniero dai tedeschi, trasferito a Innsbruck e da lì avventurosamente fuggito in Italia, comandante nelle Langhe di un battaglione delle Brigate Garibaldi) ma sempre giocandosi in un impegno etico prima ancora che politico. È sufficiente leggere il secondo degli scritti di Chiodi qui pubblicati, Orgoglio partigiano, che si conclude: “Ma soprattutto sono orgoglioso di aver fatto il partigiano quando qualcuno mi dice che non dovrei esserne orgoglioso: perché penso che sono io che, combattendo per la libertà, gli ho conferito il diritto di dirmelo”. E ricordare il necrologio che Abbagnano scrisse alla morte di Chiodi: “(…) fu filosofo per la stessa ragione per cui fu partigiano. Si trattava di realizzare con mezzi diversi uno stesso scopo: quello di contribuire ad emancipare l’individuo e ad affermarne in modo completo l’umanità”.
Nel primo dei tre saggi qui pubblicati, Fenoglio, scrittore civile, Chiodi sottolinea la differenza tra necessitas e necessitudo, la prima come obbligo esterno, la seconda come interiorizzazione di un obbligo morale, “cioè come destino di una generazione che dovette assumere incolpevole una inesorabile eredità di colpa”. E poco più avanti ribadisce concludendo: “L’ultima cosa che egli [Fenoglio] ci ha lasciato, lo stupendo troncone di romanzo Una questione privata, riassume e suggella (…) il senso del suo destino di uomo e di scrittore. Inseguendo un sogno di gentile e romantica tenerezza rimemorativa, il protagonista è gettato di colpo nella necessitudine di interiorizzare lo stupito orrore della morte data e subita.” Nel terzo scritto Chiodi non parla di Fenoglio, ma di un giovane professore collega nel medesimo Liceo di Alba, Leonardo Cocito: comunista convinto, impulsivo e anche imprudente, fu catturato dai tedeschi e impiccato a Carignano. In prigione aveva confidato a Chiodi: “Noi dobbiamo morire perché i nostri figli possano vivere”. L’unico rincrescimento era quello di essere impiccato “per via del suo bambino che avrebbe potuto magari vederlo penzolare nella piazza di Bra.” Questo così sommariamente rievocato è un capitolo della storia che abbiamo alle spalle e da cui sembrò nascere un’ Italia nuova.
All’inizio, negli anni del dopoguerra e fino ai primi anni Sessanta, il fervore intellettuale e progettuale era davvero diffuso: si discuteva, si elaborava, ci si scontrava sui massimi sistemi, ci si metteva in gioco in prima persona. Anche in una piccola città come Alba personalità quali Chiodi e don Bussi (professore di religione al liceo classico), don Piero Rossano, anche lui professore al liceo e futuro rettore dell’Università Lateranense, sostenitore strenuo del dialogo interreligioso, Fenoglio e altri animavano incontri che magari cominciavano al bar e poi proseguivano in case private. Discussioni, utopie, progetti… la vergogna per il ventennio fascista, l’esperienza partigiana, la speranza di una giustizia sociale, di un rinnovamento generale che per alcuni era anche religioso (come per Rossano, uno degli animatori del Concilio)… un fermento che non era ancora diventato istituzione e che animava la parte migliore d’Italia anche in un periodo di forti contrasti politici e di Guerra Fredda.

Di tutto ciò oggi c’è solo il ricordo nostalgico, e anche questo soltanto in alcuni, generalmente nei più anziani. La rivendicazione dei diritti, di per sé sacrosanta, ha fatto dimenticare i moniti di Simone Weil ne L’enracinement, non a caso tradotta in italiano, col titolo La prima radice, da Franco Fortini: “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. (…) L’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. (…) Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto.” Oggi il diritto è diventato pretesa e il narcisismo diffuso, triste lascito del Sessantotto e ancor più dei movimenti successivi, ci ha portato fino all’ossessione dei selfie o dei finti dibattiti televisivi. Ormai, grazie all’elettronica, tutti noi, anche i più renitenti, siamo diventati mosche prigioniere in una rete di rimandi che più si estende più ci invischia. Lo specchio della Regina di Biancaneve è il nostro emblema. Abbiamo sempre più difficoltà a misurarci con l’altro da noi e a obbligarci nei suoi confronti. Che altro c’è alla base dei sovranismi, dei respingimenti, dell’indifferenza per i bisogni del prossimo, delle fatue ed egoistiche rivendicazioni di autonomia sanitaria (“io la mascherina non la metto!”) se non il rifiuto, il fascista me ne frego, di riconoscere l’umanità degli altri? Cioè proprio l’opposto dello spirito e della pratica della Resistenza di Chiodi, di Cocito e di Fenoglio
Purtroppo, egregio Piccioli, la città di Chiodi, Bussi, Cocito e Fenoglio oggi esprime il figuro presidente di regione, per il quale “durante il fascismo c’era una gran cura del corpo”. Grazie per averci ricordato Chiodi, un personaggio importante per la nostra storia, la cui opera è assolutamente da riscoprire e divulgare.
Guido Carboni
Grazie Gianandrea Piccioli della bella recensione, non una semplice segnalazione ma un approfondimento personale e un confronto tra passato e presente da meditare.
Ne approfitto per fare io una segnalazione. Qualche giorno fa, qui a Torino, abbiamo presentato il bel libro di Antonio Bechelloni, Vittorio Foa. Note per una biografia (editore Raineri Vivaldelli, Torino 2020, con una postfazione di Marco Bresciani). L’autore scrive che Foa era solito racchiudere il senso degli anni giovanili in carcere nella frase della Scienza nuova di Vico: «Paiono traversie e sono opportunità». Ma un po’ tutta la vita di Foa ha questa caratteristica: di trarre dalle traversie, dalle sconfitte, dagli errori, l’alimento per interrogare la realtà con occhi nuovi e immaginare qualche utile mossa del cavallo per venirne a capo. Anche Foa è stato un grande maestro.
Cesare Pianciola