La parola “territorio” ritorna con irritante inflazione nei discorsi di politici e giornalisti, in termini tanto diffusi quanto generici. Una sorta di concetto “senza principio”, troppo spesso evocato mentre lo si tradisce. E invece un principio ce l’ha, o meglio dovrebbe averlo. E occorrerebbe conoscerlo, e rifletterci, quando si ragiona sullo stato di cose presente.
Ora, per capire che cosa sia, effettivamente, il principio territoriale, secondo il fondatore della Società dei territorialisti Alberto Magnaghi (il suo ultimo libro è uscito da poco con questo titolo da Bollati Boringhieri) occorre anzitutto ripensare al repertorio di concetti e termini con cui si definisce il territorio, divenuto progressivamente marginale nei modelli socioeconomici contemporanei, per immaginarne e praticarne una visione “attiva” tanto più urgente nelle crisi ambientali e sociali in atto.
Una visione – anzi, un “modello” – che contrasti le derive di un mondo troppo orientato a un ottimismo funzionale tecnologico (la digital economy, le relazioni globali di dominio dei flussi sui luoghi, il capitalismo cognitivo) e volto pericolosamente al “compimento di una seconda natura artificiale costruita autonomamente e gestita da mega-apparati ipercentralizzati”. Una “scienza nuova”, si potrebbe dire, che radichi, al contrario, il sistema politico al territorio stesso, in cui si integrano nella realtà vita e lavoro (il richiamo alle “comunità concrete” di Adriano Olivetti, figura a cui Magnaghi ha dedicato un’approfondita riflessione, è esplicito).
Ecco che, in questo ritorno al territorio, in cui mai, come nella crisi Covid, le fragilità dei sistemi territoriali prodotti dalla globalizzazione sono state così evidenti, diviene possibile, anzi doverosa, una efficace inversione di rotta in grado di affrontare strategicamente le minacce della crisi ambientale. Una sfida che Magnaghi accetta, con un azzardo meritorio proponendo nell’età dell’antropocene una nuova “civilizzazione antropica”. Un nuovo modello – di pensiero e di vita – che vada al di là di un’astratta difesa dell’ambiente ma ricostruisca nella sua complessità e concretezza il rapporto fra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione “dal basso” tutti gli elementi di produzione dello spazio. Ciò richiede, nell’ipotesi territorialista, di reimmaginare prioritariamente da parte di «comunità territoriali» innovative, regole, comportamenti, culture e tecniche ecologiche dell’abitare e del produrre che, attraverso una crescita della «coscienza di luogo» – un concetto caro all’autore, che ne aveva già trattato in dialogo con Giacomo Becattini in un precedente volume -, restituiscano agli abitanti la capacità di riproduzione dei propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico.
In che modo allora praticare la conversione ecologica attraverso processi di riterritorializzazione, ovvero praticando la centralità del «principio territoriale»? In millenni di civilizzazioni abbiamo trasformato, osserva Magnaghi, la terra in territorio: ambienti ospitali per la vita umana. «Luoghi», dotati di storia, cultura, identità, carattere, paesaggio. La terra originaria (wilderness) non c’è più. A partire dalle prime deforestazioni per praticare l’agricoltura, fino alle comunicazioni satellitari, abbiamo costruito neo-ecosistemi, una sorta di nuova «crosta terrestre», la cui vita è oggi minacciata dalla nostra stessa hybris di potenza tecno-scientifica. Stiamo distruggendo l’ambiente dell’uomo, il territorio appunto, la sua casa, abbassando la qualità dell’abitare le campagne, le città, i fiumi, le riviere, le montagne.
Il ritorno al territorio (alla terra, a riabitare la montagna, all’urbanità, ai sistemi economici locali) non è dunque solo un rivolgere nuovamente lo sguardo ai luoghi, “un percorso di contro-esodo”, per riattivare le relazioni coevolutive fra insediamento umano e ambiente. Esso è anche lo sviluppo di un sapere tecnico, scientifico e contestuale che riguarda la natura patrimoniale dei luoghi stessi. È un ripercorrere sentieri dimenticati tenendo insieme storie di vita, memorie, classificazioni vegetali, elementi costruttivi, morfologie urbane, tecniche idrauliche, dialoghi interrotti, archivi sapienti. Secondo i principi di un “ritorno” destinato a cambiare insieme la nostra percezione individuale e collettiva, il nostro stare al mondo e la nostra capacità di trasformarlo.
È lì dove il pensiero si alimenta di odori, sapori, voci, canti, architetture, che un’idea di patrimonio si fa corpo dell’innovazione: materiali e tecnologie tradizionali e innovative appropriati al luogo, dialoganti con la terra, le rocce, la flora, i saperi e i paesaggi della memoria. Dunque il territorio, in conclusione, è un bene comune: caposaldo di una conversione ecologica e territorialista dell’economia che la riporti alla sua natura originaria di «arte dell’abitare», dello stare al mondo attraverso la sua «ricosmizzazione». Una prospettiva che appare oggi la via maestra per garantire la sopravvivenza futura della specie umana sul pianeta.
Una versione leggermente diversa di questo testo è comparsa su Huffington Post col titolo Il principio T