In quale era geologica viviamo? Intervista a Marco Armiero

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Le ere geologiche, definite in base a situazioni o eventi particolarmente significativi, scandiscono la storia dell’umanità. Oggi siamo nell’era dell’Olocene, ma c’è chi afferma che dovremmo creare una nuova era, l’Antropocene, e chi disserta sull’inadeguatezza di quest’ultimo termine e ne suggerisce altri. Sul punto Fabio Balocco ha intervistato, per Volere la Luna, Marco Armiero, storico dell’ambiente, è Research Professor, Institut d’Història de la Ciència (IHC)  Universitat Autonoma de Barcelona, Spain, ICREA (Catalan Institution for Research and Advanced Studies)

Innanzitutto, cos’è l’Antropocene e chi ha creato il termine?

Antropocene deriva dal greco e significa l’“era degli umani”, nel senso che gli umani hanno la capacità di influenzare i cicli biogeochimici del pianeta: il riferimento ai “cicli biogeochimici” è caratterizzante perché, di per sé, che l’uomo possa lasciare traccia sull’ambiente non è certo una novità. Con il termine Antropocene si sottolinea la capacità umana di cambiare il sistema Terra. Chi ha inventato il termine? Sicuramente dal duemila il premio Nobel Paul Crutzen ha popolarizzato il termine, che oggi è diventato molto diffuso, anche se già prima era usato nell’ambito della comunità scientifica. Ma il problema che gli studiosi hanno affrontato e che è tuttora oggetto di discussione è quando è nato l’Antropocene. C’è chi fa un ragionamento di lunghissimo periodo e fa coincidere la nuova era con la nascita dell’agricoltura. C’è chi invece (e sono la maggioranza) si muove su tempi più vicini e ne situa l’inizio con la nascita della rivoluzione industriale, oppure – tesi che attualmente va per la maggiore – con “la grande accelerazione”, cioè con quel periodo storico, subito dopo la Seconda guerra mondiale, in cui tutto aumenta, tutto si impenna: la popolazione, il consumo di terra, i traffici, il consumo di combustibili fossili. C’è, infine, un’altra tesi, sostenuta dagli studiosi Lewis e Maslin, che individua “il chiodo d’oro” (così si definisce l’inizio dell’Antropocene) nella conquista delle Americhe.

Il termine Antropocene però non è ancora ufficializzato, noi siamo ancora nell’Olocene.

Sì, c’è la Commissione Stratigrafica Internazionale che ci sta lavorando e il nodo da sciogliere è soprattutto individuare il chiodo d’oro.

Però, nelle more, al termine Antropocene se ne è aggiunto un altro: Capitalocene.

Il termine Antropocene ha all’interno un grande equivoco perché parla di “noi umani”. Ma in realtà un ricco che abita a Manhattan non incide sulla Terra nella stessa misura di un abitante delle favelas di Maputo o di un indigeno del Guatemala: è evidente che non c’è uguale responsabilità. Da questa considerazione nasce il termine “Capitalocene”, secondo cui non è la specie umana che ha prodotto le conseguenze cui assistiamo ma è un modo di produrre, di consumare, di possedere umano che ha causato la crisi ecologica attuale. Uno studioso statunitense molto noto, Rob Nixon, ha scritto un libro, Slow violence, in cui fa un’affermazione molto efficace: «Forse siamo davvero tutti nell’Antropocene, ma non ci siamo tutti allo stesso modo». Pensi alla tragedia del Titanic: chi viaggia in terza classe muore quasi di sicuro, chi viaggia in prima ha buone possibilità di salvarsi.

Quando e da chi è stato inventato il termine Capitalocene?

Mi fa una domanda che sembra semplice ma che può scatenare un putiferio a livello accademico. Jason Moore è sicuramente lo studioso che ha popolarizzato il termine, ma lui stesso, nel saggio del 2016 Antropocene o Capitalocene?, riconosce un debito intellettuale con altri studiosi prima di lui.

Se il termine Antropocene ha quasi la certezza di essere riconosciuto dalla comunità scientifica, il termine Capitalocene resta ingabbiato in un ambito meramente intellettuale. O sbaglio?

Certo il termine Capitalocene non ha alcuna possibilità di essere riconosciuto come era geologica ma non c’è neppure un’ambizione di un riconoscimento, così come non c’è da parte di chi ha inventato il Piantagiocene o altre definizioni similari. C’è solo l’ambizione di mettere in discussione la narrativa dell’Antropocene, che rischia di depoliticizzare la crisi ecologica, secondo cui siamo tutti responsabili, mentre così non è. Peraltro, personalmente, non ritengo che chi usa il termine Antropocene per forza neghi le differenze di responsabilità.

Anch’io ragionavo su questo punto. Non necessariamente Antropocene esclude il Capitalocene, anzi, sono in teoria compatibili.

Anch’io la penso così, ma c’è chi invece sostiene che il termine Antropocene sia insalvabile.

Un’ultima domanda che riguarda un ulteriore distinguo, sul quale lei ha anche scritto un saggio. Il distinguo deriva dal termine Wasteocene: in che modo si pone rispetto al Capitalocene?

Il termine Wasteocene che deriva dall’inglese waste che significa “scarto”, designa “L’era degli scarti”, come si intitola il libro cui ha fatto riferimento. L’era degli scarti non è l’era dei rifiuti in quanto tali, ma piuttosto l’era delle relazioni socioecologiche di scarto. Se infatti ci focalizziamo sul rifiuto in quanto oggetto rischiamo di cercare soluzioni sbagliate. Esempio: ci sono troppi rifiuti? Costruiamo gli inceneritori. C’è il problema della CO2? Costruiamo le auto elettriche. Non ragioniamo sul fatto che il benessere, il paradiso di pochi derivi dall’inferno di una moltitudine. Chi respira l’aria dell’inceneritore? Chi scava per permettere la realizzazione delle batterie delle auto elettriche? Il Wasteocene estrae valore dalla vita e dalla morte degli esseri umani. È ciò che accade con l’energia green che non ragiona su cosa e chi ci sta a monte per regalarci questo benessere. Il Wasteocene crea comunità che si possono definire discariche. Io talvolta vengo rimproverato di essere contro il progresso. In realtà mi spaventano le soluzioni facili, le soluzioni tecnologiche, e guardo oltre.

Il Wasteocene si può anche definire come un’appendice del Capitalocene?

Certo, senza il ragionamento sul Capitalocene, non ci sarebbe il Wasteocene. Al termine del mio libro riconosco l’importanza di coloro che hanno lavorato su questo tema prima di me. È importante la questione dei debiti intellettuali. L’università neoliberista insegna che bisogna eccellere, essere i primi. Per uscire dal Wasteocene, appunto, occorre invece creare comunità, condividere. E riconoscere anche i debiti.

L’intervista è pubblicata anche su “Italia Libera”

Gli autori

Fabio Balocco

Fabio Balocco, nato a Savona, risiede in Val di Susa. Avvocato (in quiescenza), ma la sua passione è, da sempre, la difesa dell’ambiente, in particolare montano. Ha collaborato, tra l’altro, con “La Rivista della Montagna”, “Alp”, “Meridiani Montagne”, “Montagnard”. Ha scritto con altri autori: "Piste o peste"; "Disastro autostrada"; "Torino. Oltre le apparenze"; "Verde clandestino"; "Loro e noi. Storie di umani e altri animali"; "Il mare privato". Come unico autore: "Regole minime per sopravvivere"; “Poveri. Voci dell’indigenza. L’esempio di Torino”; "Lontano da Farinetti. Storie di Langhe e dintorni"; "Per gioco. Voci e numeri del gioco d'azzardo". Collabora dal 2011, in qualità di blogger in campo ambientale e sociale, con Il Fatto Quotidiano.

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