Europa d’attualità nella politica. Ma anche, insospettatamente, nel calcio. Con un tentativo di riforma della Champions League, la più prestigiosa manifestazione per club, che sembra quasi un golpe, uno specchio dei tempi, e che ha creato contestazioni che sembrano prodromiche al suo accantonamento. Ma la possibile svolta è significativa di un contesto, quello di uno sport non più basato sul merito ma sulla disponibilità economica.
Il modello è quello della NBA, la franchigia del basket professionistico USA, peraltro già imitata dall’Eurolega europea. Un club chiuso nel vecchio continente a cui vengono ammessi i 16 club che dànno più garanzie. Per l’Italia c’è Milano basket targata Armani che da anni colleziona pessime figure, pur contando su un budget di sette milioni di euro, sufficiente solamente per pagare gli stipendi agli innumerevoli giocatori tesserati in corso d’opera. Se anche lo scudetto lo vincesse un’altra squadra (Venezia, Cremona e Sassari tra le maggior indiziate), Milano manterrebbe il suo posto nel Gotha continentale per meriti acquisiti.
Il calcio vorrebbe incamminarsi su questa strada. Il modello è quello del calcio dei ricchi, di chi vince la partita del fatturato e non dei titoli sportivi. Una torta che fa gola per l’allargamento delle squadre in lizza. Ma, nei fatti, una riforma del genere, deprimerebbe definitivamente i campionati nazionali, ridotti a una succursale della vetrina maggiore. L’Italia già registra la scarsa competitività delle proprie squadre nei tornei internazionali. Di fatto la Juventus è l’unica squadra competitiva nel massimo palcoscenico per club. Le altre arrancano, staccate dalla Vecchia Signora di decine di punti già a metà campionato. Coltivano la demagogia della qualificazione alla Champions League successiva dalla quale saranno probabilmente eliminate sin dai preliminari.
La Superchampions è il monstrum d’attualità. Il sottofondo è sempre il solito leit motiv: più partite, più incassi e, conseguenzialmente, maggiori ricavi dalla vendita dei diritti sportivi. Vuoi mettere l’appeal di un match tra Juve e Real Madrid rispetto a Chievo contro Sassuolo? Si rientra nella logica del presidente della Lazio Lotito che in una telefonata intercettata contestava al Frosinone la militanza in serie A, proprio per il suo scarso valore commerciale, al di là dell’acquisizione del diritto partecipativo per meriti sportivi.
Oggi la Champions, la manifestazione che è costata il licenziamento di Allegri da parte della Juventus per la prematura eliminazione (nonostante la presenza di Cristiano Ronaldo che doveva essere il valore aggiunto), ha un fatturato che si aggira attorno ai tre miliardi. Si vorrebbe aumentarlo contaminandolo con i sei che ne fatturano i tre tornei più importanti. Nascerebbe così una sorta di spaccatura di classe, la serie A, B e C europea, con un meccanismo di possibile voto di scambio e di lobby tra federazioni pesate per la propria importanza e per il proprio peso politico, acuendo le divergenze economiche, impoverendo ulteriormente gli investimenti sui vivai, depressi per la predominanza del “tutto e subito”, del campione già fatto.
L’Europa calcistica in cerca di allargamento sembra lo specchio della situazione mondiale con cui è alle prese il presidente della FIFA Infantino. Cioè la possibilità di concedere l’accesso al mondiale addirittura a 48 squadre. Un assurdo tecnico-partecipativo che appare a tutti evidente. Gli eccessi organizzativi del calcio sono già sotto l’occhio di tutti con la chance concessa al Qatar, Paese di nessuna tradizione calcistica, di ospitare la rassegna mondiale a dicembre, stravolgendo il calendario internazionale.
L’estensione del diritto di partecipazione a 48 squadre sarebbe l’ennesima picconata a un sistema fondato su una bolla economica. Svanirebbe il fascino della qualificazione. Aumentando a dismisura le partite utili per qualificarsi per la finale, aumentando il rischio di infortuni dei giocatori, minando il fascino di una manifestazione che ha sempre vissuto di regole precise e, alla fine, pur con qualche sorpresa, ha premiato il migliore.
Il solo discutere di queste problematiche fa capire che nel mondo della società liquida e del turbo-capitalismo, il calcio è sempre meno sport e sempre più gioco. Ma gioco pericoloso perché fondato sul marketing, sul business e sul puro interesse commerciale.