Il calcio, le società e i ricatti mafiosi

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Nell’ordine del giorno del neo presidente della Federcalcio Gravina una delle priorità, iscritta a caratteri cubitali, dovrebbe consistere nel ristabilire la trasparenza dei rapporti tra club e tifosi, una zona grigia, anzi più spesso nera perché inquinata da gruppi criminali, dalle mafie, da oscure ma fin troppo comprensibili connivenze.

Il caso-Juventus – non recente ma riportato alla luce da due puntate di Report – è esemplificativo di una tendenza che è più o meno diffusa in tutti i club professionistici. Ma l’abbinamento del malaffare alle maglie bianconere non è casuale perché le mafie seguono il business e quello juventino è uno dei più grandi club europei che, nonostante un ultimo bilancio in passivo, stacca di gran lunga tutte le società concorrenti per un insieme di fattori che vanno dallo stadio di proprietà, al rendimento della squadra e al prestigio internazionale.

Secondo le rivelazioni di Report, la società juventina, riproducendo lo schema del rapporto tra corrotto e corruttore, cedeva regolarmente e in modo clientelare 1.500 tagliandi ai cinque grandi gruppi di ultrà ufficialmente riconosciuti i cui vertici, guarda caso – erano affiliati con cosche mafiose, in gran parte ‘ndranghetiste ma anche collegate con Cosa Nostra. Una grande mangiatoia all’insegna del do ut des.

Con la concessione gli ultrà erano liberi di rivendersi i tagliandi esercitando un bagarinaggio (ricarico dei prezzi) alla luce del sole anche appena fuori dallo stadio di proprietà del club.

D’altra parte la Juve si assicurava consenso ed evitava sgradevoli rappresaglie, come l’esposizione di un irriverente striscione inneggiante alla tragedia di Superga. Nel calcio vige il criterio della responsabilità oggettiva per cui la società risponde direttamente delle infrazioni dei tifosi. In questi casi la punizione decisa dalla giustizia sportiva va da una cospicua ammenda alla squalifica del campo. Nei casi estremi un club può essere costretto a giocare in campo neutro. Si intuisce come questo potere ricattatorio sia enorme e le società preferiscano correre quello che considerano il male minore (che, peraltro, è quello di finire immerse nella melassa criminale…). C’è finito integralmente ‒ spirito, anima e corpo ‒ il malcapitato Bucci, insieme ultrà, assunto Juve e fiduciario dei servizi segreti, che, per aver spinto troppo in là il proprio triplo gioco, è stato convinto a suicidarsi, se proprio suicidio è effettivamente stato.

In altri casi e ad altre latitudini le compromissioni possono essere di altro genere. Nello stadio di Napoli ogni lembo dell’impianto è monopolizzato dai clan camorristi a cui spetta la gestione di prodotti alimentari. Ogni acquirente di una semplice bottiglietta d’acqua in quel contesto deve sapere che una quota parte del pagamento va a un clan di Scampia, piuttosto che a uno di Secondigliano. In ambito romanista è notorio che la società giallorossa ha chiuso più di un occhio sulla vendita di magliette e accessori da gioco debitamente falsificati e rimessi in gioco dagli ultrà con una vendita di secondo grado, a prezzi di gran lunga inferiori a quelli di un prodotto originale. Provate a confrontare l’appetibilità di una maglia di Totti venduta ufficialmente a 100 euro con una, posticcia, acquistabile a 10.

Tornando al caso-Juventus, gli ultrà avevano creato un sistema industriale che garantiva circa cinque milioni di euro all’anno. Uno dei gestori di quel sistema ha rivelato candidamente in tivù il meccanismo, aggiungendo: «Grazie a questi affari ho potuto acquistare due appartamenti e permettermi un’autovettura di lusso».

L’indagine della ormai disciolta ultima versione della Commissione antimafia, presieduta da Rosi Bindi, è andata molto al di là di queste scoperte, poco appoggiata però dalla Federcalcio. Si può immaginare il rispetto che merita la Juve in questo contesto. E solo così si spiegano a suo tempo le poco opportune dichiarazioni difensive del direttore generale Michele Uva.

Ora la Federcalcio deve dimostrare di voler sciogliere questi legami. Il criterio della responsabilità oggettiva può essere rivolto contro i club che perseguono questa attività compromissoria e potrebbero pagare con una congrua squalifica la reiterazione di queste pratiche. Uno scotto ben più pesante e definitivo rispetto al ricattato con cui le mafie possono minacciare i club. Dunque occorre una svolta che non è venuta dall’ultimo presidente Tavecchio e che non era nelle potenzialità e nelle intenzioni del commissario Fabbricini.

Gli autori

Daniele Poto

Daniele Poto, giornalista sportivo e scrittore, ha collaborato con “Tuttosport” e con diverse altre testate nazionali. Attualmente collabora con l’associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ha pubblicato, tra l’altro, Le mafie nel pallone (2011) e Azzardopoli 2.0. (2012).

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