Una famigerata legge del 1981 ha avviato il calcio a uscire dal recinto dello sport autorizzandolo a entrare in quello della finanza speculativa e del profitto. Per molti anni questa possibilità non è stata raccolta dai club più importanti. Ma lo scenario è cambiato con il recepimento della sentenza Bosman. Con l’integrazione della legge 485 del 1996 sparisce il divieto di distribuzione degli utili, dando via libera alle società, con il beneplacito dell’allora ministro e vicepresidente del Consiglio Veltroni, di quotarsi in Borsa. Un regolamento attuativo del 1997 poi spalanca nuove possibilità.
L’occasione viene colta al volo dal protagonista di uno tra i più clamorosi crolli imprenditoriali del passato secolo. Sergio Cragnotti, magna pars della Cirio, vive al disopra delle proprie possibilità industriali ma è abituato a rischiare con procedure borderline e varca il Rubicone facendosi pioniere. Il 5 maggio 1998 la Lazio di Cragnotti viene quotata in Borsa e in quel giorno fatidico la richiesta supera di sette volte l’offerta, segno di quanto la novità, che appare rivoluzionaria, venga recepita con grande interesse dal mercato: a dispetto del bilancio non floridissimo del club che, per competere con le grandi, ha dato via a campagne acquisti sproporzionate rispetto alle proprie possibilità. La Lazio e Cragnotti inaugurano un filone che ora, dopo tante esperienze infelici se non proprio tragicamente traumatiche, si è messo su un binario morto. Eppure la Lazio allora presentava bilanci (gli ultimi due di 83.000 e 126.000 euro rispettivamente) più consoni a una piccola azienda che a una grande holding. Di fronte allo slancio laziale non si sottrae alla suggestione la Roma, la “cugina” del Tevere, che varca Piazza Affari il 23 maggio 2000 con prospettive un po’ più solide ma riscuotendo minore consenso. Nel 2001 si aggiunge, a formare un terzetto, la Juventus, il club più potente del Paese.
Vent’anni dopo si può affermare senza dubbio che le esperienze fatte dai tre club sono state rovinose. Perché il calcio, al di là del suo significato tecnico/etico e sportivo (a cui si può anche non credere), non è fonte di lucro e di speculazione. Non ci credono neanche gli investitori americani e/o cinesi e dai fondi di investimento che negli ultimi anni hanno scalato i pacchetti di maggioranza dei club di serie A, richiamati a ben guardare, dal progetto speculativo di costruire nuovi stadi (vedi Milano e Firenze) dotandoli di quel lucrativo pacchetto di servizi infrastrutturali che fanno tanto business. In comune i tre club che sono in Borsa hanno tutti risultati negativi. Evidente che a ciò hanno contribuito i risultati negativi della Champions League in particolare per la Juventus, sempre respinta dal vertice nelle ultime stagioni, nonostante investimenti macroscopici come quello su Ronaldo. L’adesione alla Borsa, comunque, non è un fenomeno di massa in Europa se solo 15 club hanno tentato questo ingresso negli ultimi venti anni, con una netta maggioranza di società britanniche.
In Italia intanto è iniziata una marcia indietro provvidenziale. I Friedkin, recenti nuovi proprietari dalla Roma, stanno cercando di uscire da questo Moloch onnivoro e condizionante. Hanno ricevuto il benestare dalla Consob e stanno procedendo al rastrellamento di azioni che oggi valgono circa un decimo rispetto a quelle del primo collocamento. I proprietari americani comprano da piccoli azionisti per cercare di raggiungere il 95% totale e poi procedere liberamente senza vincoli verso l’uscita. È un esempio che potrebbe seguire la Lazio. Molto più difficilmente la Juventus perché gli Elkann & Agnelli guardano, più dei club romani, a interessi industriali diversificati dove il calcio è solo uno dei tanti addendi.