1.
In questo contributo ci riferiamo alla democrazia non come tecnica generale, o come modello di organizzazione politica della società al di là dei tempi e dei contesti. Nella storia la “democrazia” tra i pochi dominanti è stata applicata anche per evitare che si affermassero assetti non controllati dai poteri tradizionali in coalizione fra di loro e per escludere da qualsiasi riconoscimento interessi emergenti di nuovi soggetti. Ci riferiamo invece alla democrazia moderna di massa come sistema che, con percorsi, esiti e tempi diversi, si è venuta affermando (mai completamente) in una parte del mondo capitalistico (la più sviluppata) a fronte dell’entrata in scena di grandi masse di lavoratori e lavoratrici “liberi” e dipendenti come conseguenza dello sviluppo capitalistico e della necessità di ampliare la platea dei produttori e dei consumatori. Una entrata in scena che si accompagnava all’idea che il capitalismo non fosse l’unico sistema possibile o che le condizioni a cui i lavoratori (occupati e non occupati) erano sottoposti non fossero inevitabili.
Si fa strada a livello diffuso un protagonismo consapevole per un sistema alternativo al capitalismo o comunque per rivendicazioni di cambiamento e miglioramento della condizione di vita e di lavoro. Si determinano a questo scopo rappresentanze, organizzazioni e azioni come tendenza di fondo e non episodica. È questo il quadro in rapporto al quale all’interno dei paesi capitalistici più sviluppati, nella parte più consapevole della borghesia e del pensiero borghese si sviluppò la ricerca di percorsi e di risposte che rendessero governabile, all’interno di un sistema democratico, il protagonismo delle grandi masse, evitando che mettessero in discussione il potere nel cuore della produzione capitalistica. Si realizzarono a livello di realtà nazionale in tempi e forme diverse con un protagonismo centrale degli Stati nazionali, in un contesto di espansione democratica, misure importanti sul piano delle politiche economiche e occupazionali e dei diritti civili e sociali, particolarmente estese a partire dal secondo dopoguerra e che coinvolsero anche gli Stati Uniti. Per tracciare un sintetico e non completo elenco ci riferiamo all’estensione del diritto di voto e alla possibilità di associazione sindacale, alle misure previdenziali e sanitarie, a politiche economiche dello Stato nel senso di promuovere sviluppo e occupazione, a politiche fiscali che riducessero le disuguaglianze.
È in questa stagione che in Italia si collocano la stessa Costituzione con un lento e contrastato sviluppo dei diritti civili e dei diritti delle donne, e persino lo Statuto dei Lavoratori. In altri paesi il problema della irruzione delle grandi masse fu affrontato con sistemi che anch’essi ricercavano un consenso diffuso, ma in un contesto autoritario e repressivo su basi identitarie di esasperato sovranismo e nazionalismo, a partire dalla negazione del riconoscimento del conflitto sociale tra le classi come dato fisiologico del capitalismo.
Lo sviluppo della democrazia o di risposte autoritarie e repressive sono state le due tendenze prevalenti in quella fase, mentre con la rivoluzione russa pareva addirittura prospettarsi l’incubo del superamento del capitalismo. Come è noto, prevalse, non a caso anche sul piano militare, la tendenza democratica con politiche degli Stati su base nazionale e in presenza di lotte dei lavoratori e delle lavoratrici e grandi organizzazioni di rappresentanza.
2.
Ormai da parecchi decenni si sono modificati i dati della situazione prima descritti che costringevano il capitalismo a moderare la sua famelicità, ma che nel contempo lo spingevano a ricercare nuovi e più avanzati livelli di sistema nel rapporto capitale e lavoro all’interno del quale realizzare profitti. Molti dimenticano che tutto questo non sarebbe avvenuto senza la presenza, prima ricordata, di forti movimenti di massa spesso ispirati dall’idea che lo stesso capitalismo potesse essere superato. La naturale famelicità del capitalismo ha cercato appena possibile di uscire dalla dimensione prima descritta, dai condizionamenti e dai limiti che si erano determinati per mantenere il controllo sul lavoro nella sfera della produzione e cioè nel cuore del capitalismo stesso. Tra l’altro le aperture democratiche non avevano mai davvero oltrepassato i confini del potere sul lavoro nel lavoro, con però significativi segnali (in particolare negli anni 60) di un crescente intervento di contestazione critica dei lavoratori e delle lavoratrici su aspetti di potere all’interno dei luoghi di lavoro e sulle forme dello sfruttamento.
La globalizzazione finanziaria e la ridefinizione e riorganizzazione della forma impresa con concentrazione e nel contempo decentramento e delocalizzazione nazionale e internazionale, utilizzando le possibilità di radicali innovazione fornite dalle tecnologie sono terreni in cui il capitale, con il decisivo supporto degli Stati, ha proceduto, senza alcuna intenzione di riprodurre a questo livello lo sviluppo “democratico” precedente, colpendo quindi le basi su cui si era venuto determinando il potere del lavoro a livello nazionale e della grande industria. Nel frattempo si è andata esaurendo la credibilità della idea di un possibile altro mondo non capitalistico rappresentato da alcune grandi esperienze storiche. Si è prodotta così in modo crescente l’attuale situazione di dominio unilaterale del capitale e la riduzione drastica della possibilità che in campo vi possa essere un altro punto di vista autonomo e generale, quello del lavoro.
Pare evidente lo stretto rapporto tra questo e la crisi della democrazia, la cui natura moderna è strettamente connessa al riconoscimento della lotta di classe e della dialettica capitale/lavoro come fondante la democrazia. Il pensiero liberale storico non aveva mai negato che esistevano le classi; a questo punto si va oltre e si afferma sempre più un pensiero e una cultura che nega le classi nelle attività economiche produttive come fondanti il capitalismo. Dopodiché gli svariati problemi di critica alla società restano orfani della possibilità di congiungersi con il soggetto sociale che opera all’interno della macchina produttiva del capitale con una sua critica praticata e autonoma, ispirata da ideali di solidarietà e uguaglianza.
3.
Il lavoro non viene sconfitto solo in specifiche vicende o in presenza di momenti di crisi del modello capitalistico in atto, viene sconfitto per escluderne la possibilità di essere in campo nella ridefinizione del nuovo modello di capitalismo da affermare. È come se, impostata una partita con un terreno di gioco, una delle due squadre cambiasse il terreno con l’altra squadra messa nelle condizioni di non potersi difendere.
L’effetto è devastante e avviene in assenza di consapevolezza della natura di ciò che sta avvenendo o per un’antica abitudine del pensiero e della rappresentanza politica e sindacale di sinistra di ritenere cicliche le sconfitte così come le successive riemersioni o anche per la illusione consolatoria sul crollo del capitalismo. La radicalità della sconfitta è favorita anche dai varchi attraverso i quali si è potuta affermare senza grandi ostacoli, e anzi a volte con più o meno consapevoli complicità. Ci riferiamo a centrali caratteristiche presenti nella storia del movimento operaio che pur ne avevano contribuito a determinare e permesso lo sviluppo politico e sindacale in tanti paesi. Alla capacità del capitalismo di fuoriuscire dal precedente sistema di sfruttamento del lavoro, non ha corrisposto una corrispondente capacità del movimento operaio.
La prima caratteristica a cui riferirsi è che, nonostante le dichiarazioni di ideali universalistici e internazionalisti, la pratica è sempre rimasta chiusa a livello nazionale facendo dello Stato nazionale e del proprio padronato il riferimento di fatto centrale delle proprie conquiste e strategie. Nella stessa rivoluzione russa è stato evidente il ripiegamento su basi nazionali, nonostante che il punto di partenza fosse stata la rottura con la socialdemocrazia per il voto sui crediti di guerra per il primo conflitto mondiale. Da questo punto di vista ci risultano incomprensibili nella fase attuale le tendenze a ricercare la ripresa di una sinistra del lavoro di fatto richiamandosi a dimensioni sovraniste e nazionaliste, adatte solo per derive autoritarie e identitarie a carattere o aclassista o interclassista, e comunque ricondotte a un utilizzo in funzione di conflitti tra i vari paesi. Un esempio di questa difficoltà è il mancato utilizzo dell’Europa come base della ricostruzione di un nuovo livello su cui cercare l’unificazione del mondo del lavoro.
Il secondo limite storico, messo a nudo dalla nuova fase del capitalismo, è in un approccio al problema della rappresentanza che è rimasto interno al pensiero borghese, comune nelle varie versioni sull’autonomia del politico rispetto al sociale o meglio separato dal sociale. Sia nelle versioni radicali che moderate. I lavoratori e le lavoratrici sono rappresentati per obiettivi e conquiste che non sono il frutto di un percorso democratico che li assuma tutti come soggetto di partecipazione decisionale su contenuti di solidarietà e di uguaglianza, ma come rappresentati da organizzazioni che si autonominano loro rappresentanti. In questo quadro la dimensione contrattuale e quella politica sono o in una relazione tutta e immediatamente politica, oppure assegnano il primato alla politica con una inevitabile riduzione della dimensione contrattuale e sindacale a una funzione di servizio. In presenza di queste caratteristiche il confronto oggi con il capitalismo è impari. Lo stesso recupero in questa fase del ruolo dello Stato si svolge in un contesto di partenza che sviluppa concorrenza, protezionismi e guerre (solo commerciali?) in assenza di una dimensione diversa che potrebbe forse essere costruita sulla base di un’idea di Europa dei lavoratori e delle lavoratrici in grado di riaprire una dialettica tra capitale e lavoro come prospettiva democratica alternativa dell’attuale situazione internazionale.
Ci rendiamo conto che sono oggi speranze e idee scarsamente fondate. Nonostante questo potrebbero aprirsi percorsi interessanti se organizzazioni di massa come i sindacati assumessero consapevolezza dei nuovi terreni su cui scommettere il proprio futuro e mettere in discussione la propria inadeguatezza tentando di ridare ai lavoratori e alle lavoratrici una nuova centralità di idee e pratiche di solidarietà e giustizia sociale.
4.
Lo sfondamento infatti sul lavoro non ha ovviamente risolto i problemi per il capitalismo, anzi per certi versi li ha accentuati. La cosa non dovrebbe sorprendere chi ritiene che questa società sia fondata sulle classi e sul rapporto di potere tra capitale e lavoro, e che quindi in assenza di una dialettica di conflitto sociale a partire dal cuore del sistema, questa società è esposta alle derive più inquietanti. Lo possiamo vedere su vari terreni di grande rilievo: dai diritti sociali ai diritti civili al rapporto con la natura, al riarmo generale, al riacutizzarsi di una conflittualità tra imperialismi. Il tutto in presenza di una crescente disuguaglianza, precariato e alti tassi di disoccupazione.
Su questi terreni si producono movimenti e tensioni, che seppure frammentati, esprimono obiettivi e valori di giustizia sociale e solidaristici. Il dato però si accompagna alla scarsa presenza del conflitto sociale nel cuore del sistema e della sua economia in grado di costringere il capitale e fare i conti con un altro punto di vista.
Colpisce la difficoltà a capire il carattere essenziale di questa dimensione, con persino teorizzazioni a cui spesso assistiamo sulla strutturale perdita permanente di importanza del lavoro. La rassegnazione e la rinuncia a ricostruire il filo della storia. È una situazione che si può riscontrare anche in utili e importanti lavori su temi come politiche economiche e industriali prive però di forze sociali che li sostengano.
In questo quadro la crisi della democrazia non è riconosciuta nella sua radice. È molto citata ma sempre più come retorica, così come il prevalere di letture critiche della realtà di indubbio e straordinario valore ma ricondotte solo a pur importanti categorie etiche o generaliste ( poveri e ricchi, il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, i buoni e i cattivi).
5.
C’è una possibile ripartenza?
Queste note, volutamente sintetiche ed essenziali, vogliono essere un contributo per andare alle radici della crisi oggi della democrazia considerata nella sua radicalità e specificità storica.
La tesi argomentata situa nella rottura di una dialettica almeno potenzialmente paritaria tra capitale e lavoro il punto ineludibile della crisi della democrazia e l’affermarsi di un dominio unilaterale del capitale. Viene negata la possibilità di fare i conti con questa crisi, senza che venga ripristinata, o meglio costruita, una dimensione centrale di conflitto democratico tra capitale e lavoro. Questo è il problema che ci viene consegnato e su cui vorremmo che ci si misurasse concretamente evitando di ricercare risposte nel passato e tantomeno adeguandosi al presente e a una cultura di frammentazione e frantumazione degli interessi. Nel contempo a noi pare tutt’altro che certa la possibilità di risposta positiva al problema, ma abbiamo la convinzione che se non vi fosse questa capacità di risposta positiva non vediamo come si possa affrontare il problema.
Come è evidente da quanto prima argomentato, solo i lavoratori e le lavoratrici (tutti e tutte) possono essere i protagonisti e le protagoniste di un percorso di riunificazione del lavoro e di riaffermazione di un potere autonomo a livello internazionale del lavoro nei confronti del capitale; un percorso che possa e sappia rappresentare un’idea di un mondo diverso riconnettendo al suo interno le tante tensioni su valori, diritti e ideali che pure sono presenti nella realtà.
Si conclude qui la nostra riflessione e consegniamo il suo sviluppo a chi volesse cimentarsi. Non abbiamo certezze, ma speranza sì, nella convinzione che, se non sarà possibile, il futuro della crisi della democrazia ci appare oscuro e molto inquietante.
L’articolo è tratto da Inchiesta, n. 210, 2020