NOI, LA PACE E LA GUERRA
Anche quest’anno, il 2 giugno, la nostra Repubblica si autocelebra con una sfilata militare e, dunque, con un tripudio di armi, divise e bandiere. Benché nel suo atto di nascita ci sia scritto che «l’Italia ripudia la guerra». Noi che “vogliamo la luna” – qui e ora – cominciamo altrimenti.
Coerentemente con l’obiettivo che ci siamo scelti (“la politica punto a capo”) cominciamo dalla pace.
Contro la pratica e la retorica bellica, dalla parte di coloro che la guerra e i suoi effetti quotidianamente subiscono, insieme a chi non si rassegna al pensiero dominante e non accetta di minimizzare.
Per questo il nostro sito si apre con contributi sulla “pace che vogliamo”, sugli scenari globali che la ostacolano, sui conflitti che investono Paesi in cui affondano la nostra storia e la nostra cultura (il Kurdistan e la Palestina), sull’insufficienza delle reazioni dei più.
La pace è l’architrave di una politica giusta. Non sempre la cosa ci è presente. Anche perché da oltre settant’anni il nostro Paese e l’Europa occidentale non sono teatri diretti di guerre. A differenza di quanto accaduto in passato. E, dunque, è diffusa la convinzione che la guerra sia una cosa di altri. Anche se le armi con cui vengono combattute sono costruite in fabbriche italiane e molte basi da cui partono aerei impiegati in bombardamenti più o meno intelligenti stanno sul nostro territorio. Anche se contingenti militari italiani sono impegnati, in Asia e in Africa, in operazioni belliche che solo una truffa delle etichette consente di chiamare “missioni di pace”. Anche se gli effetti delle guerre, vicine e lontane, si materializzano ogni giorno in Europa nell’arrivo dolente di rifugiati e bambini in fuga e nelle gesta del terrorismo internazionale. Anche se di gran parte delle guerre in corso, tollerate o propiziate dalla comunità internazionale, siamo comunque co-protagonisti in quanto partecipi di quella comunità. E tuttavia, non vedendo le case distrutte e non sentendo le sirene che annunciano i bombardamenti ci illudiamo (preferiamo illuderci) che la guerra non esista. Anche se, attualmente, essa tocca in modo diretto nel mondo quasi 50 Paesi.
Per invertire la tendenza occorre reagire. Su più piani.
Primo. La pace non si esaurisce nella (pur necessaria) mancanza di guerra. Lo abbiamo imparato sui banchi di scuola, studiando i limiti della pax romana. Ma non ne abbiamo tratto profitto. Eppure i fatti lo confermano al di là di ogni dubbio. Senza (un minimo di) giustizia sociale non c’è pace. È l’abisso della disuguaglianza tra le persone e tra i popoli la causa profonda delle guerre. E queste sono, essenzialmente, stragi di poveri, come dimostrano le immagini televisive dei conflitti di oggi e le lapidi affisse in tutti i nostri comuni a memoria dei conflitti di ieri. In un mondo dominato dal profitto le guerre, anche quando non esplodono, covano sotto la cenere. E a fronte delle motivazioni economiche, quelle politiche, religiose, tribali sono soltanto ragioni aggiuntive (quando non pure apparenze). Oggi destra e sinistra fanno a gara nel rimuovere questa circostanza per non mettere in discussione il dogma del dominio dei mercati, vero “pilota automatico” della politica mondiale. Qui, invece, sta il cuore del problema. E da qui occorre partire per modificare la situazione, senza lasciare la parola d’ordine del cambiamento a non ben definiti populismi. Nella consapevolezza che la pace è il frutto di un sistema di relazioni, interne e internazionali, opposto a quello che caratterizza l’attuale assetto del mondo.
Secondo. C’è, nell’epoca della globalizzazione, un paradosso: l’eclisse generalizzata della politica estera e delle organizzazioni internazionali. Anche in termini di interesse, di studio, di analisi. La politica estera sembra diventata appannaggio esclusivo delle (poche) grandi potenze, con scarse incursioni di qualche Paese nostalgico di un’antica grandeur. Per il resto, un’assenza conclamata, tanto che, nella formazione dei governi nazionali, i ministeri degli esteri appaiono caselle di secondaria importanza (come si vede, in questi giorni, nella crisi italiana). Parallelamente le organizzazioni internazionali, a cominciare dall’ONU, sono sempre più impotenti e prive di strumenti reali di intervento (quando non subalterne a logiche di parte). Così le dichiarazioni internazionali sui diritti fondamentali si riducono a carte prive di efficacia e di interpreti. Ciò allontana le prospettive di pace e moltiplica i conflitti, al punto che, secondo alcuni analisti, uno scontro militare diretto tra Stati Uniti e Russia non è mai stato così vicino dai tempi della crisi per i missili a Cuba del 1962. Non ci sono bacchette magiche. Ma per provare a modificare la situazione occorre un forte rilancio di conoscenza e di rapporti internazionali. A ciò daremo il nostro contributo.
Terzo. La costruzione di una pace vera e duratura richiede un cambiamento profondo: di cultura e di comportamenti. Anche con gesti di disobbedienza. A partire dai territori. Le industrie italiane – come si è detto – inondano di armi il mondo, comprese le aree di guerra, e il leitmotiv dei più, anche di ampi settori sindacali, è che in tempi di crisi occupazionale non si può andare troppo per il sottile e disquisire sul tipo di produzione. Non è sempre stato così, come ci ricorda un precedente del lontano 1970, quando, il 24 settembre, i cinquecento operai e impiegati delle Officine Moncenisio, nella bassa Valsusa, al termine di una lunga assemblea e «dopo due/tre minuti di silenzio irreale» (come ricorda un testimone) approvarono all’unanimità una mozione contro la produzione di armi, chiedendo all’azienda di non accettare più commesse con finalità belliche. A dimostrazione che il lavoro e le scelte etiche e politiche non sono necessariamente destinate a entrare in conflitto. E, poi, i migranti: immagine vivente degli effetti delle guerre. La cattiva coscienza di chi di quelle guerre è responsabile o complice vorrebbe rimuoverli finanche dalla vista, trasformando le persone in reati e la solidarietà in delitto. Negli Stati Uniti di Trump come nell’Ungheria di Orban e nell’Italia di Salvini. Ribaltare, nella cultura e nella pratica, questa impostazione è, qui e ora, il compito di chi vuol essere operatore di pace (e a cui intendiamo concorrere).