L’unica cosa “vera”, cioè fattuale, attesa, pianificata, documentabile, marginale nelle cronache e nelle considerazioni politiche su quanto sta succedendo in queste ore che diventano giorni, senza una fine prevedibile, in Ucraina, sono le vittime, militari e civili, dirette e indirette. Sapendo bene, come si dice per tutte le guerre, che la prima vittima certa è la verità, da tutte le parti in causa. Ma è una guerra – quella “scoppiata”, ma sorvegliata e accompagnata negli infiniti dettagli, come un parto ad alto rischio in un luogo (enclave, regione, Stato nuovo, indipendente, neo-coloniale) – di cui si può dire solo che coincide, da tanti anni, con intervalli di altri “scoppi”, sanguinosissimi, ma interni, e non qualificabili come guerre. Ed è guerra di chi, contro chi, e per che cosa? È chiaro l’aggressore materiale: e l’aggredito (oltre alle vittime sul campo)? Il diritto internazionale? La comunità degli Stati? La “civiltà” occidentale?
Quale posto occupa questa guerra-in-cerca-di-un-nome tra i tanti scoppi, acuti e cronici, con equivalenti o molte più, o meno, vittime di cui è così ricca e variata la mappa del mondo, spesso con attori molto simili, o coincidenti, con quelli che occupano il primo piano, e soprattutto le prime pagine, delle news in questi giorni? Dagli scenari, tanti, permanenti, a singhiozzo dell’area Kurda, della Siria, della Libia, del Sahara Occidentale, dello stillicidio palestinese… solo per rimanere “dalle nostre parti”? Ma senza dimenticare il Myanmar, il Kashmir, il Mali… E se tutto quanto avviene-avverrà in Ucraina fosse solo (con costi intollerabili in termini di vite e di diritti umani: ma molto più calcolati e decisivi a livello economico-finanziario e di macroinvestimenti militari) una delle mosse – azzardate? arroganti? spiazzianti? – di una partita a scacchi permanente, giocata sui tavoli riservati di diplomazie che giornalmente “digeriscono” senza batter ciglio le guerre ai migranti da ogni guerra, i bombardamenti sul futuro dell’ambiente e delle generazioni presenti e future degli affamati-scartati, gli algoritmi neutrali che decidono ciò che è legale-permesso, e cancellano le vite concrete dei popoli, che sono disturbanti perché introducono la variante dei diritti umani di ognuna/o?
Nulla di nuovo, dunque, in Ucraina. Le domande si sono fatte più esplicite, perché geograficamente ed emotivamente vicine. Come era stata un tempo la ex-Yugoslavia e i suoi genocidi accompagnati da guerre umanitarie, che ci aveva aggiornato sulla “prossimità” di quanto era accaduto in Rwanda, e nella guerra del Golfo. Ma avevamo dimenticato presto: Irak, Isis, Sri Lanka, il genocidio lungo 70 anni della Colombia che continua nel silenzio perfetto di tutti gli attori, anche noi, dell’Ucraina.
Il punto di vista del Tribunale Permanente dei Popoli —piccolo piccolo, senza potere né mediatico né ancor meno politico – ha come unica funzione irrinunciabile quella di essere un promemoria della sola inviolabilità su cui misurare la “civiltà” dei tanti diritti ufficiali, nazionali e internazionali. La inaccettabilità della guerra-in-cerca-di-un-nome che occupa l’orizzonte globale documenta ancora una volta l’incapacità programmata di non trasparenza e di “dire la verità ai potenti” (è il tema ricorrente nella letteratura anche scientifica nel tempo della “guerra dei vaccini”: con quante vittime? e certi, pochi, potentissimi, umanitari vincitori) delle democrazie: anche quelle che si sprecano in qualificazioni accusatorie per “gli altri”, o “il nemico”. Biden è reduce dall’Afghanistan, e le conseguenze di quella guerra pesano oggi, non sulla coscienza, ma certo sulla responsabilità di tutti “noi” alleati, in termini di “morti per fame”: più silenziosi e noiosi di quelli per bombe o missili o droni. E le risposte sono sempre (quando e se gli interessi, delle banche o delle strategie energetiche lo permettono) “sanzioni devastanti” (per chi, a che scopo, con quale attenzione ai popoli soggetti di storia, trasformati in mosse di partite a scacchi?).
Questo testo non voleva essere scritto, perché l’unica cosa da dire è «no a tutto ciò che rimanda, coincide, rende di fatto protagonista la guerra, in tutte le sue forme e sotto qualsiasi nome. Senza se e senza ma». Nel ricordo di tutti i popoli che, nella sua storia “permanente”, hanno chiesto al Tribunale permanente dei popoli di dare loro una voce più forte e indipendente di quella di tutti gli aggressori, il “no” ha provato ad articolarsi, traducendosi in domande che sono allo stesso tempo ovvie e imprescindibili. Permanenti. Finché la “civiltà” delle nostre società non avrà la lucidità (sempre più rara…) di prendere sul serio la proibizione della guerra, così chiaramente presente nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella nostra Costituzione e così ovviamente violata in nome di non importa quale menzogna o scusa dettata dal potere. È l’augurio del Tribunale permanente dei popoli, anzitutto perché tutte le vittime inutili di questa guerra, unite a quelle dei tanti altri conflitti di cui è fatta la guerra mondiale per frammenti (di cui parla Papa Francesco) si trasformino in un grido permanente di “basta”.
Se, ancora una volta, il “piacere” di giocare a scacchi sarà la regola del diritto internazionale, per le nuove generazioni sarà ancor più vera la tragica verità della Ninna nanna della guerra di Trilussa, così come recitata (parola per parola, sguardo per sguardo…) da un indimenticabile, disincantato, dolcissimo Gigi Proietti.