Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 in Italia di salute mentale si parlava, se ne scriveva sui quotidiani, se ne discuteva in incontri pubblici e assemblee studentesche, le telecamere della Rai entravano nel manicomio di Gorizia. Nei movimenti di liberazione e negli ambienti medici progressisti si levava forte la critica verso le istituzioni totali e la vecchia psichiatria organicista, che si ostinava a non considerare il fattore psico-sociale come possibile causa dei disturbi mentali. Al dibattito e alle lotte di quegli anni, che portarono alla legge Basaglia del ’78, partecipò attivamente l’Associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali (fondata a Torino nel 1967 per combattere l’istituzione manicomiale e liberare i degenti costretti in condizioni di vita disumane, e ancora oggi impegnata a sostegno e per la dignità delle persone con disagio psichico, contro il pregiudizio e lo stigma). Nell’ottobre del ’69 entrava in funzione, insieme con la Carta dei Diritti del Ricoverato, uno degli strumenti più efficaci per monitorare la realtà degli ospedali psichiatrici e difendere i diritti dei reclusi: la Commissione di Tutela. Un organismo composto da semplici cittadini, ideato e imposto dall’Associazione alla direzione degli ospedali della provincia, che entrava nelle strutture, dialogava coi ricoverati e le famiglie e si faceva carico delle loro esigenze nei confronti dell’istituzione, con il sostegno di molti medici e infermieri all’interno degli ospedali. Le lettere che i pazienti consegnavano ai volontari della Commissione, senza essere quindi sottoposte a censura, sono ancora gelosamente conservate e i dossier che le contengono sono considerati lo scrigno che custodisce “il tesoro” storico dell’Associazione. Quel tesoro è la fonte da cui è scaturito un libro, Voci da un altro mondo, un’antologia di quella corrispondenza. Quegli scritti, supplicanti e tremolanti oppure eleganti e fieri, non erano soltanto rivolti ai volontari dell’Associazione, erano voci da un limbo senza tempo desiderose di ricongiungersi al mondo dei vivi, che pretendevano considerazione, nella speranza che tutti “là fuori” potessero sapere di quel mondo mortifero e invisibile. Tant’è che le frasi che ricorrono sono: «scrivetelo sui giornali, fate sapere a chi sta fuori, ditelo al sindaco, al vescovo, al presidente».
Oltre ad essere una piccola finestra sulla realtà sociale della nostra storia recente, questa antologia, con la sua carica di umanità, ci interroga su una doverosa questione attuale e rimossa: e oggi? Quante sono le voci che si levano oggi da chi soffre di disagio psichico? Da dove provengono? Che effetto hanno sulle istituzioni e sulla coscienza di noi cosiddetti “normali”?
Cinquant’anni fa la sensibilità sociale era ancora attenta alla collettività e ai diritti usurpati di chi viveva ai margini e generò quel clima di fermento culturale che ebbe la forza di trascinare la politica a legiferare in favore di quelle voci. Ma la storia occidentale della sofferenza psichica è sempre stata una storia di classe. Già nell’Europa del XVI e XVII secolo la follia costituiva un reato contro la morale corrente, quella dello Stato e della religione. I regi decreti internavano, negli stessi recinti malsani, “alienati” e delinquenti comuni, provenienti dalle classi sociali più povere. Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, nella provincia di Torino, l’eccessiva presenza di bambini figli d’immigrati, in particolare meridionali, già all’interno delle classi speciali e differenziali, finì col diventare il serbatoio privilegiato che incrementava la popolazione infantile dei manicomi. Non certo case di cura, più simili a galere, con le quali lo Stato intendeva assicurarsi il mantenimento dell’ordine sociale. Ad eccezione di alcune eroiche figure illuminate e dissidenti fra medici e infermieri, lo psichiatra, massima autorità scientifica, rivestiva il ruolo di garante di quell’ordine e l’infermiere, scelto in base alla prestanza fisica, ne assicurava la ferrea osservanza.
Oggi siamo di fronte a una sofferenza psichica diffusa, che l’ordine sociale globale tende a espandere tra fasce di popolazione sempre più fragili e indifese, spesso trascurate da un servizio pubblico carente. Conseguenze di un modello di sviluppo che premia una minoranza emarginando tutti gli altri, con una forza centrifuga maggiore verso la periferia della composizione sociale. Un modello che genera una massa enorme di scarti, di rifiuti umani scomodi, che il sistema cerca di occultare nascondendoli come polvere sotto i mobili. I “matti” di ieri (che se non stavano in manicomio bisognava cacciarveli) e gli invisibili di oggi!
Se nel nostro mondo gli imperativi sono il godimento illimitato, una gioventù perenne e il facile successo mediatico, allora non fa bene all’immagine del Paese un sistema sociale che produce troppi esclusi. Una scuola con troppi bocciati perde iscritti. Troppi scarti riducono il consenso. Di conseguenza reti televisive e testate giornalistiche del mainstream nazionale non si curano di produrre inchieste sullo stato della salute mentale nel nostro Paese o sull’enorme giro d’affari mondiale legato alla produzione e all’abuso di psicofarmaci, giustificato da esiti di sperimentazioni finanziate dagli stessi produttori, che spesso sono risultati in contrasto con risultanze epidemiologiche indipendenti (Whitaker Robert, Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci, 2013, Giovanni Fioriti). Interessi più finanziari che sanitari quelli delle case farmaceutiche, che si accordano, da un lato, con il riemergere di una psichiatria di stampo organicista sostenuta anche dal successo delle neuroscienze e, dall’altro, con una forma particolare di consumo, il farmaco come doping, in soccorso a stili di vita che non ammettono pause, dominati dall’ideologia della performance. Occorre allora aprire una riflessione pubblica tra operatori sanitari, sociali e cittadini sul ruolo e le conseguenze che hanno avuto, ed hanno, gli psicofarmaci nella nostra storia recente e sui loro pesanti effetti collaterali spesso non presi sufficientemente in considerazione da chi li prescrive. Una marea di pillole che inizia a montare nei primi anni ’50, passando dall’epoca dell’ansia (gli ansiolitici degli anni ’60 e ’70) a quella della depressione (le “pillole della felicità”, gli antidepressivi, dagli ’80 ad oggi: David Herzberg, Le pillole della felicità. Dal Miltown al Prozac, L’Asino d’oro, 2014). Senza metterne in discussione un uso critico e responsabile, si può senz’altro dire però che il farmaco non è servito a svuotare i manicomi, ma soltanto a renderli… più silenziosi!
Il disagio psichico, le svariate forme di depressione e le nuove dipendenze da sostanze sono in forte aumento nelle società del benessere: un ossimoro. Ma, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il peso globale dei disturbi mentali continua a crescere in tutti i Paesi del mondo. Secondo i dati dell’OMS circa 300 milioni di persone sono affette da depressione, 60 milioni da disturbo bipolare, 23 milioni da schizofrenia. Nel mondo circa 50 milioni di persone sono affette da demenza e si stima che tale numero triplicherà nei prossimi trent’anni. Nei bambini e negli adolescenti i disturbi neuropsichiatrici sono la principale causa di disabilità. Sempre secondo l’OMS, nel 2019, il numero di persone con disturbi mentali ammontava a circa un miliardo di individui. Dopo il primo anno di pandemia le forme di ansia e quelle di depressione sono aumentate rispettivamente del 26 e del 28 per cento e in Italia, secondo l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), il consumo di ansiolitici è aumentato del 12%, con picchi intorno al 70% nelle regioni del Centro. Nelle carceri, per non parlare dei CPR (i Centri di Permanenza per il Rimpatrio), la situazione diventa esplosiva: nel nostro Paese nei primi 10 mesi di quest’anno (al 17 ottobre) si sono registrati 68 suicidi di persone detenute. A fronte di questi dati impressionanti, la seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale del 2021 certifica che in Italia la quota destinata a curare e prevenire i disturbi mentali ammonta a meno del 3% della spesa sanitaria, quando l’obiettivo della UE è fissato al 10%. Va di pari passo la fuga di personale sanitario. Il sindacato Anaao stima che nel 2025 mancheranno altri mille psichiatri tra pensionamenti e dimissioni, mentre, tra le risorse del PNRR, neanche un euro viene destinato alla salute mentale.
Insomma, ci troviamo a vivere in un mondo che potremmo definire “in sviluppo senza progresso”, anzi, per alcuni aspetti in regresso. Individui sempre “connessi” ma sempre più isolati, privi di legami impegnativi, orfani del senso di comunità solidale, diffidenti verso il prossimo. Il terreno di coltura del disagio psichico è sempre più fertile: disuguaglianze sociali e povertà, incertezza e fragilità. Ma la condizione sociale di chi si trova a fare i conti col “male di vivere” è ulteriormente aggravata dalla relazione con l’altro. Al contrario di chi è afflitto da una malattia organica, chi soffre di problemi mentali difficilmente trova empatia, può trovare temporanea sopportazione, trova paura (paura del lato oscuro e irrazionale presente in ognuno di noi), trova incomprensione e, spesso, colpevolizzazione. Un muro di isolamento invalicabile che raddoppia la sofferenza e può diventare intollerabile. Se il male, crudelmente, non dona l’inconsapevolezza di questa condizione e non si intravedono vie d’uscita, optare per la soluzione estrema e “togliere il disturbo” può diventare l’unico e ultimo breve passo di cui si dispone.
Le nuove istanze sociali emerse tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso avevano creato i presupposti per quella sensibilità collettiva che ha aperto la strada a profonde riflessioni e riforme istituzionali. Credo che ora l’obiettivo sia quello di ricostruire quella sensibilità diffusa che si è sfilacciata e far sì che il dibattito non si limiti allo sgomento con cui le cronache ci raccontano di un omicidio inspiegabile, del suicidio di un adolescente, di un TSO finito in tragedia, per poi dimenticare tutto il giorno successivo, fino al prossimo dramma. Leggere le lettere dei reclusi nei manicomi di allora non vuol dire soltanto dare il giusto ascolto alle vittime di quegli orrori. Vuol dire, in particolar modo, pensare a ciò che potrebbe scrivere oggi chi soffre di disagio psichico e aprire l’animo alla rinascita di quella sensibilità sociale inaridita, vuol dire aprire uno scrigno nascosto, ricco di umanità e ribellione, disperazione e speranza, di felicità per il dono di un paio di scarpe comode, di un cappotto usato, di un “Buon Natale” su una cartolina…
È la rielaborazione dell’intervento dell’autore in sede di presentazione del libro da lui curato Voci da un altro mondo. Lettere dal manicomio senza censura, matti di ieri e invisibili di oggi (Sensibili alle foglie) effettuata il 19 settembre 2022 nella biblioteca dell’ex manicomio di Collegno (Torino).