Barriere architettoniche: un modo per dire “tu no!”

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Barriere architettoniche. La sola parola mi annoia. Mi dico: c’è ancora qualcosa da spiegare? E penso: le rivendicazioni delle persone con disabilità sono altre e più avanzate. Poi ci incappo, un marciapiede senza rampa, la cena organizzata in un locale non accessibile, un concerto troppo letteralmente underground, l’ascensore non funzionante da settimane al lavoro, l’ennesima maratona alla ricerca di un fatiscente accesso secondario ma “esclusivo” a una biblioteca civica, un ufficio pubblico, una scuola. Ci incappo e – mediamente – mi infurio.

Quasi sempre però prima della rabbia arriva un senso di disagio. Già, ma perché? Perché ogni barriera, piccola e grande, rende la vita più complicata. Poi perché quel gradino davanti al negozio, sulla cui porta leggo “Io posso entrare”, mi costringe a cercare inutilmente il pittogramma della carrozzina, accanto a quello del cane. Invece niente, il gradino ribadisce: Tu no, non puoi entrare. Certo bisogna distinguere caso da caso, valutare e considerare le leggi in vigore e i controlli e c’è gravità e gravità, ma una cosa mi sento di dire in modo categorico: Ogni barriera è un TU NO! O meglio, così la percepisco, anche quando nelle buone intenzioni altrui non è proprio un rifiuto categorico; è piuttosto un TU SÌ, MA: un po’ meno, un po’ dopo, allungando un poco la strada, diversamente.

Cosa fare, dunque, di questo disagio e di questa rabbia, e della frustrazione di dover ritornare al grado zero di ogni rivendicazione? Le pur utili segnalazioni puntuali di luoghi non accessibili o, al contrario, di lodevoli casi isolati, non risolvono il problema e, per le persone con disabilità, rinviano semplicemente l’appuntamento con disagio e frustrazione. Chiaramente bisogna affrontare la questione su un piano collettivo, culturale e politico, su un piano “civico”, che la inquadri nell’ambito che le spetta, quello della pienezza del diritto alla partecipazione agli spazi e alla vita della città, alla cosa pubblica. Su base di uguaglianza, come già prescrive la Costituzione e ribadisce la Dichiarazione Universale dei Diritti delle persone con disabilità.

In questo quadro la parola “accessibilità” acquisita tutto il suo spessore e la sua bellezza non burocratica e rende le “barriere architettoniche”, a cui rischiamo di assuefarci, insopportabilmente odiose, oltre che noiose, perché sono ostacolo a diritti fondamentali, alla pienezza della vita. Cosa fare dunque? Inutile fare elenchi, ma condividere intanto un nuovo vocabolario collettivo, e un nuovo metodo per affrontare questa come altre questioni della città. Non semplicemente “abbattimento di barriere” ma “accessibilità” e “fruibilità” degli spazi fisici, dei servizi, dei trasporti, degli eventi, della comunicazione, delle “offerte” culturali e turistiche. A cominciare dal pubblico, ma non limitandosi ad esso. Non si parte da zero, tutti possono testimoniarlo, ma c’è molto da fare e bisogna farlo insieme, non più rimandando quella “co-programmazione” e quel coinvolgimento delle associazioni che leggi e Convenzione ONU già prescrivono. E coinvolgendo i cittadini, perché diventi un’esigenza condivisa.

Gli autori

Antonio Castore

Antonio Castore è dottore di ricerca in letterature comparate e autore dei libri "Il dialogo spezzato. Forme dell’incomprensione in letteratura" (Pacini, 2011) e "Grottesco e riscrittura" (Aracne, 2012). Per Bompiani ha tradotto e curato l'edizione critica della 'Commedia degli errori' e di 'Pericle. Principe di Tiro' (William Shakespeare, Tutte le opere, a cura di F. Marenco). Ha collaborato con l'Institute of Cultural Inquiry di Berlino, per il quale ha in preparazione un libro sul tema della lingua madre. Tetraplegico, collabora con diverse associazioni di persone con disabilità.

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