Tutto iniziò, sembra, con la sciagurata iniziativa di un facoltoso calzolaio di Boston, certo John Augustus, che nel 1841 chiese al giudice di affidargli un miserabile ubriacone, invece di mandarlo in prigione. La Corte accolse la richiesta sospendendo la pena detentiva a condizione che l’interessato lavorasse e rispettasse rigorosamente i doveri impostigli. L’esperimento purtroppo riuscì. L’ubriacone fu recuperato alla società e la certezza della pena (detentiva, s’intende, che è l’unica pena seria) subì il primo esiziale vulnus.
Pare che il calzolaio poi prese in carico, con successo, centinaia di persone. La perniciosa idea non tardò ad attraversare l’oceano, prima infettando soprattutto la giustizia penale minorile, poi contagiando l’intera giustizia penale. E quel che è peggio dalla prassi si passò alle legislazioni nazionali e da queste ai documenti internazionali. Ormai il virus della individualizzazione della pena in vista di un recupero sociale del condannato ha contaminato anche alti consessi.
La Corte di Strasburgo si è spinta ad affermare che la pena dell’ergastolo viola l’articolo 3 della Corte europea dei diritti dell’uomo (divieto di trattamenti inumani e degradanti) qualora il sistema interno non preveda la possibilità di riesame o di rimessione in libertà dopo un certo periodo di tempo, in generale venticinque anni di reclusione.
Di recente, abbiamo dovuto anche leggere in una della nostra Corte costituzionale che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato», ma che «non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società».
I cauti avverbi non riescono a nascondere l’ennesimo durissimo attacco, con il pretesto di attuare l’art. 27 comma 3 Costituzione, al principio della certezza della pena. Anche a voler concedere che il progressivo reinserimento del condannato meritevole nella società comporti vantaggi in termini di drastica riduzione della recidiva e di cospicue economie di scala, non si dovrebbe rinunciare al nobile principio giuridico “chi sbaglia, paga” (con il carcere, beninteso, perché le sanzioni alternative non soddisfano adeguatamente l’esigenza punitiva avvertita dal popolo).
Come non bastasse, stava per tagliare il traguardo un progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario, che estendeva il ricorso a modalità di espiazione non detentiva della pena. È vero che si trattava di modalità molto più impegnative e responsabilizzanti per il condannato di quelle attualmente previste, ma pur sempre di deroghe al principio della rigida fissità della pena.
Per fortuna, l’ignavia della precedente maggioranza e la lucida determinazione dell’attuale hanno scongiurato il pericolo. Finalmente si è avuto il coraggio politico – sì, coraggio, giacché la tesi è inspiegabilmente isolata nel mondo occidentale – di affermare che la parte relativa alla misure alternative andava espunta dalla riforma per garantire la certezza della pena detentiva.
L’auspicio ora è che, coerentemente, si bonifichi il sistema da tutte le analoghe misure che sin dal 1975, con la scusa del recupero sociale del reo, hanno introdotto la possibilità di mutare le modalità e la durata di esecuzione della pena. Certo, abolendo le misure alternative al carcere la popolazione penitenziaria sarebbe destinata quasi a raddoppiare, ma il rimedio è semplice: basterà costruire nuove carceri. Siamo poi ben consapevoli che ripristinare una pena detentiva che resti del tutto indifferente allo sforzo di riabilitazione sociale compiuto dal condannato sarebbe operazione non priva di ostacoli anche sul piano giuridico. Di certo, stando alle loro consolidate giurisprudenze, la Corte costituzionale ne dichiarerà l’illegittimità, mentre la Corte di Strasburgo si spingerà a condannare il nostro Paese.
Ma sappiamo di poter confidare su taluno dei nostri governanti con le idee chiare: se Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo si dovessero mettere di traverso, sarà sufficiente chiudere una volta per tutte questi “baracconi”.
È il cambiamento, bellezza.
L’articolo è tratto da Ristretti Orizzonti