Ecuador. Una svolta politica incerta

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Nell’Ecuador, un paese con 17,4 milioni di abitanti la cui principale attività di esportazione è il petrolio e che sta attraversando una grave crisi economica aggravata dalla pandemia Covid, si sono svolte domenica 7 febbraio le elezioni generali per eleggere il presidente, il vicepresidente, 137 membri dell’assemblea e 5 membri del Parlamento Andino.

I primi risultati elettorali mostrano un netto rifiuto della popolazione ecuadoriana alla gestione dell’ex presidente Lenin Moreno, che ha intrapreso un percorso neoliberista favorendo i grandi gruppi economici e finanziari che controllano l’economia e i media del Paese e accentuato la dipendenza dalle organizzazioni finanziarie internazionali firmando un accordo con il Fondo Monetario Internazionale senza l’autorizzazione dell’Assemblea Nazionale come previsto dalla Costituzione. Durante il suo mandato Moreno ha applicato una politica di austerità riducendo la spesa pubblica, incoraggiando le privatizzazioni e adottando politiche fiscali regressive. Le organizzazioni sindacali hanno subìto diversi attacchi. Moreno non solo ha reso più flessibili i rapporti di lavoro annullando i diritti dei lavoratori riconosciuti nella Costituzione, ma ha anche chiuso in modo autoritario i locali della Federazione Pubblica dell’Istruzione. Inoltre, ci sono, nei suoi confronti, gravi denunce di corruzione, come quella relativa al caso dell’Ospedale Pedernale, per il sovrapprezzo negli acquisti pubblici durante l’emergenza, che contraddice uno dei punti principali del programma anti-corruzione del Governo. La politica di aggiustamento che Moreno voleva imporre eliminando i sussidi per il carburante, ha provocato una forte protesta sociale. La rivolta, guidata dagli indigeni e ispirata da Yaku Perez e da altri movimenti sociali, ha costretto il Governo, nell’ottobre 2019, a fare retromarcia. Le massicce mobilitazioni sociali, che sono state ferocemente represse, hanno evidenziato la perdita di popolarità e consenso del governo di Moreno a causa delle politiche che hanno portato a un preoccupante aumento del numero di persone che vivono in povertà e povertà estrema. Secondo la Banca mondiale, nel primo trimestre del 2018, sono stati conteggiati circa 504.000 nuovi poveri e circa 185.000 in condizioni di estrema povertà. Secondo l’OIL, il 46,7% delle persone occupate vive nell’economia informale; solo il 51,5% della popolazione ha una copertura assicurativa sanitaria dallo IESS e il 48,5% con più di 65 anni non riceve alcuna pensione. A ciò si aggiungono gli effetti devastanti della pandemia Covid gestita malamente lasciando gran parte della popolazione senza protezione.

Come noto, Lenin Boltaire Moreno Garces è stato vicepresidente del Paese dal 2007 al 2013 nel governo Correa ed è salito al potere nel maggio 2017 con il sostegno di quest’ultimo nella campagna elettorale. È stato eletto con il 51,16% dei voti al ballottaggio del secondo turno contro il conservatore Guillermo Lazo, lo stesso che attualmente è in corsa per il secondo posto con Yaku Perez. Nel 2018 c’è stata una rottura con Correa quando Moreno ha indetto un referendum che ha impedito la sua ricandidatura. Correa, che da quando ha lasciato l’incarico vive in Belgio, è stato condannato nel 2020 per corruzione a otto anni di carcere, il che ha infranto le sue speranze di candidarsi oggi alla vicepresidenza.

Nelle elezioni di domenica scorsa la candidata di Alianza Pais sostenuta da Moreno, XimenaPeña, ha ottenuto uno scarso 1,52%. Chi ha ottenuto la maggioranza dei voti, il 32,2%, è Andrès Arauz, politico ed economista, già ministro durante la presidenza di Correa, che ha presentato la sua candidatura nella lista Unione per la Esperanza (UNE).

Questo risultato mostra il desiderio di una parte della popolazione di tornare alla “rivoluzione cittadina” del governo Correa che, secondo la Banca Mondiale, tra il 2006 e il 2014 ha registrato una crescita media del PIL del 4,3% approfittando dell’aumento del prezzo del petrolio (nel 2008 un barile di petrolio aveva un prezzo di 140 dollari) con una riduzione della povertà dal 37,6% al 22,5%. Il correismo ha dimostrato di avere una grande forza ma ha anche generato molti rifiuti e frammentazioni nei movimenti sociali e nelle organizzazioni sindacali. Sono noti i casi segnalati dai sindacati agli organi di controllo della OIL per violazioni della libertà sindacale e della contrattazione collettiva, in particolare nel settore pubblico, petrolifero e sanitario. E sono note anche le proteste di alcuni movimenti indigeni contro le politiche estrattive del petrolio e contro le misure in agricoltura di Correa che esentò le aziende agroalimentari dalle tasse e sussidiò le imprese produttrici di fertilizzanti e fitosanitari con l’obiettivo, non raggiunto, di controllare i prezzi dei generi alimentari, anziché intervenire nelle filiere di commercializzazione e cambiare la struttura oligopolistica del mercato alimentare. La mancanza di consultazione con le popolazioni indigene, che hanno presentato una proposta per misure agrarie alternative non presa in considerazione dall’esecutivo o dall’Assemblea costituente, ha fatto sì che la cosiddetta “rivoluzione cittadina” si sia presentata con qualche ombra nonostante i buoni risultati economici e sociali. Queste contraddizioni si riflettono nel processo elettorale ecuadoriano che definirà il futuro presidente al secondo turno previsto l’11 aprile. Le promesse di Arauz di ridefinire i termini dell’accordo di negoziazione con il FMI e di mettere da parte le famose ricette di politiche di aggiustamento che hanno un impatto negativo, hanno convinto una parte della popolazione che ha votato a suo favore.

Tra i candidati al secondo turno c’è Yaku Perez, leader indigeno e ambientalista, ex prefetto della provincia di Azuay e difensore dei diritti della natura, rappresentante del movimento Pachakutik, il braccio politico della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), che con queste elezioni si sta affermando come seconda forza politica del Paese dopo essere stato protagonista nell’ultimo referendum sull’acqua in Cuenca (indetto a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale che ha attribuito alle comunità locali e indigene il diritto di voto per acconsentire o meno alla realizzazione nei loro territori dei progetti minerari di grandi e medie dimensioni), vinto con il sostegno dell’80% della popolazione della regione, che fa parte della provincia di Azuay dove ci sono grandi giacimenti di oro, argento e rame. Yaku mantiene mentre scriviamo un minimo vantaggio di voti sul suo avversario, il conservatore di destra Guillermo Lasso, che per la terza volta si candida alle elezioni presidenziali. I risultati ufficiali finora gli danno il 20,07% dei voti contro il 19,50% ottenuto da Lasso.

Alcuni sostengono che Yaku potrebbe rappresentare un’altra sinistra, una nuova opzione nel panorama latinoamericano della sinistra indigena e ambientalista. Altri, sulla base di sue dichiarazioni pubbliche, ne rilevano grandi contraddizioni consistenti, per esempio, nel definire fraudolento il processo elettorale del MAS (il partito socialista di Evo Morales) in Bolivia, nell’essersi apertamente pronunciato, nelle precedenti elezioni del 2017, a favore del conservatore Lasso («È preferibile un banchiere che una dittatura») e nell’avanzare una proposta politica che dice poco o nulla sui diritti dei lavoratori. Anche in questo caso dunque, a fianco delle luci, ci sono tante ombre, a cui si aggiunge la strana alleanza con il banchiere Guillermo Lasso il quale ha detto che, se il secondo turno fosse tra Arauz e Yaku, voterebbe per il candidato indigeno (cosa che aumenterebbe, in caso di raggiungimento del ballottaggio, le sue possibilità di vincere l’11 aprile).

Il riconteggio dei voti avviene in una situazione di tensione in cui non mancano le accuse di frode. Il Consiglio elettorale nazionale (CNE) e la Missione di osservazione elettorale (MOE) dell’OAS, l’Organizzazione degli Stati Americani, hanno convocato separatamente i tre candidati in corsa per calmare la situazione. Questo processo elettorale apre molte questioni, ma in ogni caso si osserva nella maggioranza degli elettori una svolta positiva contro le politiche neoliberiste che aumentano la disuguaglianza e le politiche estrattiviste che minacciano l’ambiente.  

Ci sono anche nuovi protagonisti politici come l’uomo d’affari Xavier Hervas di Izquierda Democrática (ID) che proviene dall’agroalimentare e detiene azioni in sette società di questo settore che nel 2019 hanno registrato vendite per 6 milioni. Il suo programma di governo propone di annullare la concessione per lo sfruttamento del petrolio nell’area di Yasuní, la depenalizzazione dell’aborto, la promozione del settore pubblico, tra gli altri, e sorprende con il nome del suo partito. Xavier Hervas è arrivato quarto con il 16,2% (mentre i voti per il resto dei candidati sono inferiori al 3%). Hervas ha già detto che non sosterrà alcuna candidatura al secondo turno.

La comunità internazionale guarda da vicino questo processo elettorale in quanto è il primo dei tanti che si svolgeranno in America Latina nel 2021. Con tutte le contraddizioni e le debolezze della sinistra, è uno scenario democratico interessante, con nuovi protagonisti che riprendono la questione del territorio e dell’ambiente e che irrompe fortemente nella definizione di alternative di governo promosse principalmente da popolazioni autoctone, movimenti femministi e giovani, come accade già in altri paesi del continente.

Gli autori

Carmen Benitez

Carmen Benitez è stata sino a pochi mesi fa funzionaria dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro nella sede regionale per l'America Latina di Lima in Perù, dedicandosi prevalentemente alle attività di sostegno e formazione rivolte alle organizzazioni dei lavoratori.

Fulvio Perini

Perini Fulvio, sindacalista alla CGIL, ha collaborato con la parte lavoratori, Actrav, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

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