Accade in Libano

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È la dolorosa storia del Libano e dei suoi quattro milioni di abitanti divisi dal settarismo per tutta la loro esistenza: il centro era la terra di nessuno tra l’Oriente cristiano e l’Occidente musulmano durante la sanguinosa guerra civile che ha ucciso centinaia di migliaia di persone tra il 1975 e il 1990.
Ma oggi “Thawra”, la Rivoluzione, sta segnando un altro tipo di storia: non una divisione di credo, ma di filo spinato tra i manifestanti equamente divisi tra uomini e donne, secondo una stima delle Nazioni Unite, di ogni estrazione sociale e provenienti dalle 18 religioni ufficialmente riconosciute nel Paese – molte delle quali non si unirebbero in circostanze normali – che si pongono in conflitto con un governo che rappresenta 30 anni di storia che ha portato alla crisi economica, sociale e ambientale del Paese dei cedri, che di alberi ne ha sempre meno e di discariche a cielo aperto sempre di più.
Questa è la prima volta nella storia del Libano in cui le profonde partizioni religiose si sono unite mettendo da parte, almeno per il momento, le divisioni storiche, a lungo utilizzate per emarginare e creare terrore, sostituendole con un forte senso di identità nazionale e di risentimento collettivo.
Il 17 ottobre 2019 sono iniziati gli ormai quattro mesi di proteste: donne in prima linea, nessuna rappresentanza formale, società civile in sommossa.
Negli ultimi dodici mesi anche l’Algeria e l’Iraq si sono unite al Libano con proteste diffuse, ma prive di leader. I manifestanti del “thawra” in Libano, come le loro controparti nel “hirak” in Algeria, condividono un dissenso comune di rabbia strutturale nei confronti di un sistema, rimasto irrisolto dopo la primavera araba del 2011.
Moustafa è un giovane libanese, guida dell’Alternative Tour of Beirut che consiste in quattro ore di camminata tra i luoghi, i graffiti, gli edifici ancora colpiti dalla guerra civile, e gli angoli della capitale che più raccontano cosa è accaduto e cosa sta vivendo oggi questo Paese. L’ho conosciuto un sabato mattina di poche settimane fa, appena prima di raggiungere entrambi le manifestazioni in corso. «La rivoluzione che stiamo vedendo in questo momento è collegata in un modo o nell’altro alla guerra civile. Controlli le date – mi dice – il 2020 segna la fine dei 30 anni di guerra; nel senso che ora abbiamo un’intera generazione che non ha partecipato alla guerra civile. Faccio parte di quella generazione».
Grazie a Moustafa vengo a sapere che in Libano non si studia la guerra civile, non c’è libro scolastico di storia che ne parli, anche perché dovrebbe raccontare le decine di versioni esistenti della stessa storia per mantenere un equilibrio politicamente corretto, quindi si evita di affrontarla sui libri di scuola. Così facendo la riconciliazione non è realmente mai avvenuta. Ma – come Moustafa racconta – crescendo, i giovani libanesi non potevano non venire a conoscenza di questi eventi, dai loro genitori e dai nonni, come dai nuovi mezzi di comunicazione e dai social networks. Crescendo e informandosi, hanno avuto l’opportunità di sviluppare un punto di vista proprio e c’è oggi una generazione di ventenni che sta smantellando le credenze e le ideologie delle generazioni precedenti. I giovani sono più connessi e il livello di istruzione è più alto rispetto alle generazioni precedenti, e hanno un accesso più ampio alle informazioni. Così non è facile e semplice come una volta fare il lavaggio del cervello al popolo, è molto più semplice verificare se si tratta di informazioni false. Non si ascolta più solo il discorso di un leader o di un politico, ma ascolti e controlli quello che viene detto, poi analizzi e sviluppi la tua opinione.

Le donne in prima fila

Il popolo libanese sta protestando contro la corruzione del Governo e la grave crisi economica in cui si trova attualmente. Le proteste sono iniziate poco dopo che il governo del primo ministro Saad Hariri ha tentato di aumentare le tasse su alcuni beni, tra cui la benzina e persino WhatsApp, goccia che ha fatto traboccare il vaso di fronte ai crescenti livelli del debito pubblico, i sempre più ridotti servizi di base, come elettricità e approvvigionamento idrico, con il timore di una svalutazione della lira libanese oltre che per la carenza di valuta forte. Il tasso di disoccupazione giovanile è in aumento e la maggior parte dei disoccupati è composta da neolaureati. Il salario minimo è di poco più di 300 dollari al mese, fissato in lire libanesi e non in dollari, e questo è uno dei Paesi più costosi del Medio Oriente. Aumenta così la già netta differenza tra le classi sociali e tende a scomparire la classe media. Moustafa, che ha studiato alla American University of Beirut, dice che i giovani si laureano in buone università, ma poi sono costretti a restare a casa perché non c’è lavoro o il lavoro che trovano è sottoqualificato e non gratificante, rispetto all’impegno negli studi e all’onere economico dei genitori per pagare le elevate tasse scolastiche. Perciò i giovani emigrano alla ricerca di opportunità professionali più interessanti e che offrano loro un futuro economicamente più sicuro. Ma questo è un fenomeno che conosciamo bene anche nel nostro bel Paese.
La protesta è nata ed è volutamente pacifica: una protesta pacifica sarebbe stata più difficile da respingere. Sebbene in gran parte non violente, le dimostrazioni si sono però occasionalmente e progressivamente trasformate in rivolte un po’ più tese, soffocate da gas lacrimogeni e da idranti utilizzati dalle milizie di Hezbollah e dalla polizia antisommossa.
La Rivoluzione chiede un nuovo sistema politico che non sia “solamente” rappresentativo delle varie comunità religiose – i musulmani sunniti, i musulmani sciiti e i cristiani – che detengono ciascuno determinati poteri e ruoli, potendo così mantenere ordine ed equilibrio, ma che sia in grado di combattere corruzione e clientelismo e che abbia le competenze necessarie per affrontare le necessità reali del Paese. I manifestanti vorrebbero un nuovo governo di tecnocrati capaci di riformare dall’interno il sistema elettorale e proporre riforme che possano realmente aiutare il Paese a uscire dalla drammatica situazione di crisi in cui si trova. La struttura di condivisione del potere che ha governato fino ad oggi, e che è stata fondamentale per porre fine alla guerra civile nel ‘90, ha negli anni permesso l’ingerenza da parte di potenze esterne come l’Iran (il cui sostegno a Hezbollah ostacola la possibilità di creare un modello di governance diverso in Libano), ma ancor di più quella degli Stati Uniti (che cercano di ridurre l’influenza di Hezbollah, che ha più potere in termini di capacità militare rispetto all’esercito ufficiale libanese).
I manifestanti chiedono anche cambiamenti per quanto riguarda la legge sulla nazionalità, discriminatoria nei confronti delle donne libanesi che, con l’attuale legislazione, non possono trasmettere la cittadinanza ai figli per cui i bambini nati da madri libanesi e da padri stranieri, non possono usufruire dell’assistenza sanitaria pubblica o di altri servizi e in generale dei diritti garantiti ai cittadini libanesi.
Moustafa è convinto che questa Rivoluzione sia direttamente collegata alla liberazione delle donne: «le donne libanesi stanno liberando se stesse dalla società maschilista in cui vivono. Se si guarda bene dentro le manifestazioni, sono le donne quelle in prima linea, non sono a seguito di nessuno, anzi sono loro le leaders del movimento e sono loro la ragione per cui le proteste non si sono mai trasformate in azioni violente fino ad oggi. Le donne sono il motore e la motivazione di questa Rivoluzione».
L’attuale sistema di potere venutosi a creare nel dopoguerra aveva già dato segno di crisi con le elezioni del 2018, le prime dopo quasi un decennio, in cui solo circa la metà della popolazione avente diritto era andata a votare. In particolare nella capitale l’affluenza alle urne era stata estremamente bassa. L’affluenza al voto è stata elevata solo nelle zone meridionali del Paese, dove Hezbollah gode di maggiore consenso. La grande percentuale che si è astenuta dal voto lo ha fatto perché non si fida del sistema, non crede a sufficienza che qualcosa possa realmente cambiare o che il loro voto possa davvero contare qualcosa.
Il 29 ottobre 2019, di fronte alla feroce opposizione politica, Saad Hariri ha offerto le dimissioni da primo ministro, motivandole con il suo fallimento nel placare le proteste di massa. Nonostante lo sforzo del nuovo Governo, formatosi a gennaio 2020, nel promettere l’introduzione di riforme che avrebbero ridotto i salari dei politici, investito in centrali elettriche e in banche fiscali, le proteste thawra sono continuate nelle principali città libanesi, sventolando bandiere, cantando e ballando nella Piazza dei Martiri di Beirut. Le proteste hanno portato alla chiusura di scuole, negozi, banche e stazioni di servizio. Molti manifestanti ritengono infatti che il governo di 20 ministri di Hassan Diab che ha appena ricevuto la fiducia del Parlamento e del Gruppo di Sostegno Internazionale al Libano di cui fa parte anche l’Italia, scelto principalmente da Hezbollah e dai suoi principali alleati – il Movimento Patriottico Libero e il Movimento Amal – abbia fallito nel soddisfare le richieste di cambiamento. Nonostante la riduzione del numero di ministri, la presenza di sei donne, tra cui la prima ministra della Difesa di un Paese arabo, oltre 350 persone sono rimaste ferite dai manganelli, dai gas lacrimogeni e dai proiettili d’acciaio rivestiti di gomma negli scontri attorno al palazzo del Parlamento, mentre tentavano di impedire ai parlamentari di partecipare al voto di fiducia.
Rientrata dalla mia missione in Libano a fine gennaio, mi chiedo per quanto tempo riuscirà a resistere questa rivoluzione senza leader, se sarà in grado di soddisfare le richieste di riforma politica e di sistema, e quale degli Stati portatori d’interesse interverrà con più potere negli affari interni di questo Paese, riuscendo a provocare un ulteriore conflitto alimentato dalle già febbrili tensioni medio orientali.

Due milioni di rifugiati

Il sistema che governa questo Paese ha ripetutamente fallito nel soddisfare le esigenze di base dei libanesi, ma anche dei suoi circa due milioni di rifugiati.
I rifugiati palestinesi registrati raggiungono quasi mezzo milione, come riportato dall’agenzia delle Nazioni Unite responsabile (UNRWA) e tra questi ci sono anche palestinesi scappati dalla guerra in Siria. Circa il 45% di loro vive nei 12 campi gestiti da UNRWA, ma anche a causa delle sempre più ridotte risorse dell’agenzia, le condizioni di vita all’interno di questi campi sono sempre più degradate.
I palestinesi in Libano non godono di molti diritti: per esempio non possono esercitare 39 professioni e non possono essere proprietari di beni immobili, oltre a non avere una rappresentanza politica. Nonostante il loro status, i rifugiati sono soggetti a costanti violazioni dei loro diritti, restando così in una posizione di vulnerabilità e segregazione persistente. Inoltre non sono formalmente riconosciuti come cittadini di un altro Stato, per cui sono impossibilitati a reclamare quei diritti che i rifugiati provenienti da Stati riconosciuti possono rivendicare.
Ma c’è chi ha ancora meno riconoscimento e sono i siriani arrivati in Libano in fuga dalla guerra a cui non è mai stato attribuito lo status di rifugiato e che, a partire dal 2015, il Governo libanese ha deciso di nemmeno registrare. La condizione di illegalità dei siriani nel Paese continua a incrementare la loro vulnerabilità, non avendo uno status riconosciuto e quindi una documentazione regolare. Per poter ottenere una residenza legale, devono avere uno sponsor libanese – il Kafala ‒ che, in molti casi, si traduce in un rapporto di dipendenza se non di schiavitù. L’assenza di registrazione nel Paese comporta il non avere accesso ai servizi di base e ne mette a serio rischio l’incolumità. Molti profughi sono donne e bambini che hanno già subito traumi e che possono essere particolarmente vulnerabili allo sfruttamento e alla prostituzione. Quest’ultima viene promossa per esempio facendo “sposare” una giovane siriana con un libanese, che poi si dimostrerà essere un trafficante, oppure reclutando le giovani con la forza all’interno dei campi profughi informali, o addirittura con la vendita ai trafficanti da parte delle stesse famiglie.
L’agenzia delle Nazioni Unite UNHCR responsabile per i rifugiati, nell’ultimo report del 2019 sulla vulnerabilità dei siriani in Libano, riporta che a causa delle limitatissime opportunità di guadagnarsi da vivere – i siriani possono essere impiegati o esercitare professioni solamente nell’agricoltura, nella gestione dei rifiuti e nelle costruzioni – circa il 50% delle famiglie vive in condizioni di estrema povertà.
La decisone del governo libanese di proibire la costituzione di campi profughi ufficiali dedicati all’accoglienza dei siriani ha comportato la creazione di vari accampamenti non autorizzati e l’occupazione di spazi in condizioni di estrema precarietà, senza poter nemmeno aver accesso al supporto e ai servizi di UNHCR o di altre organizzazioni umanitarie. Il termine “displaced”, introdotto nel 2012 per i siriani in sostituzione di quello di rifugiato, rivela l’evidente mancanza di volontà di riconoscere alcun obbligo nei confronti di questa popolazione.
Nonostante abbia sottoscritto numerosi trattati internazionali per la protezione dei diritti umani, il Libano non ha un quadro legislativo in vigore che protegga i diritti dell’immenso numero di rifugiati e profughi che ospita: di fatto li tratta come immigrati illegali nel Paese e non rispetta il principio secondo cui i richiedenti asilo non possono venire accusati del crimine di immigrazione illegale. Il crescente numero di profughi, tra cui spiccano i siriani non registrati, l’instabilità politica e la crisi economica che sta colpendo il Paese alimentano anche le tensioni interne alle comunità ospitanti.
Il Libano è oggi, a livello globale, il Paese con il più alto numero di rifugiati per persona. Nel 2010 UNHCR ha riportato che l’87% dei rifugiati e richiedenti asilo in Libano erano iracheni, e alla fine del 2017 il Paese stava ospitando 997,500 rifugiati siriani registrati (quindi precedenti al 2015), tra cui 39.600 siriani nati in Libano, e 20.500 rifugiati e richiedenti asilo provenienti da altri Paesi.
Nonostante queste statistiche, la cifra reale degli immigrati e delle nazionalità d’origine è difficilmente verificabile, dal momento che non c’è più stato un censimento dal 1932 a causa della natura sensibile della questione. Registrare e formalizzare una ripartizione della popolazione per origine e religione diversa da quella definita alla fine della guerra civile, che prevedeva un’equa distribuzione tra cittadini libanesi musulmani e cristiani e l’assenza di riconoscimento di altre popolazioni residenti nel paese da generazioni, comporterebbe l’ammissione che il sistema politico che governa il Paese non è assolutamente rappresentativo del suo popolo.

Per chi volesse approfondire il profilo di Elena Gentili suggeriamo la lettura di un suo recente articolo sul “Corriere della sera”: Dieci anni da cooperante con mio figlio, unico bianco dell’asilo.

Gli autori

Elena Gentili

Nata a Milano nel 1983. Laureata in Economia della cooperazione internazionale alla Sapienza di Roma, Master presso la London School of Economics and Political Science nell’indirizzo di NGO Management, è attualmente cooperante del COSPE onlus come rappresentante Paese. Ha lavorato in Africa, America latina e Medio Oriente. Ha collaborato con le Nazioni Unite in Libano all’interno del programma di ricostruzione del campo per i rifugiati palestinesi di Nahr el-Bared. Dopo di allora "si è appassionata e specializzata sempre di più nella partecipazione della società civile nei processi di protezione e promozione dei diritti umani e specialmente di genere".

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