Artigiani toscani del recupero

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La Bolfra di Castelfiorentino

A volte i sogni cominciano quando si riaprono gli occhi. Ho desiderato questo momento fin da quando, verso le 6,30 di questa mattina, ho varcato la soglia di casa per dirigermi verso la stazione di Santa Maria Novella. Intuivo che verso sera, quando mi sarei trovato di fronte allo schermo del pc, i polpastrelli delle mie dita non avrebbero esitato a battere sulla tastiera. Mi sbagliavo. Prima di incontrare uno degli otto soci della cooperativa Bolfra di Castelfiorentino ignoravo che, una volta violato il candore di una pagina vuota, l’esitazione sarebbe subentrata all’entusiasmo: le mie parole avrebbero rischiato di non rendere giustizia all’esperienza che si proponevano di raccontare.

Dopo aver ascoltato da circa due anni le esperienze e le ricerche sul campo di diversi lavoratori ed esperti, era la prima volta che mi recavo personalmente in una delle decine di imprese recuperate sorte in Italia dopo la crisi economico-finanziaria di dieci anni fa. Il viaggio che da Firenze conduce a Castelfiorentino e che fa tappa intermedia a Empoli concede al passeggero appena il tempo sufficiente a leggere una parte della storia di questi lavoratori sul sito della cooperativa Bolfra. Inizio a pregustare l’incontro con quei lavoratori in tute blu che si trovano al centro della foto caricata sul sito, presagendo che, una volta tanto, il piacere non sarebbe stato inferiore all’attesa che lo precede.

Il percorso che dalla stazione di Castelfiorentino conduce alla sede della falegnameria delude le aspettative estetiche di chi è abituato ai paesaggi sinuosi e seducenti della campagna toscana. Assieme a Empoli la città in cui sono approdato era uno dei principali poli industriali della Toscana, come dimostra l’assenza di marciapiedi a lato della strada che porta alla Bolfra: non è progettata per stuzzicare gli sfizi consumistici delle famiglie del paese a passeggio nel weekend, ma per agevolare il passaggio di auto e camion dotati di una certa capienza.

Quando arrivo sul posto sono costretto a costeggiare il perimetro di un supermercato, prima di giungere al cancello della falegnameria che si trova sul retro. Ad accogliermi c’è Marco, direttore commerciale della cooperativa. È lui a raccontarmi il prima e il dopo del recupero dell’azienda familiare Bolfra, fallita dopo trent’anni di attività. Prima della crisi la falegnameria era composta da più di 50 dipendenti e produceva da 50 a 250 persiane al giorno. Il crollo del mercato edilizio, però, ridusse drasticamente la domanda di persiane su cui la falegnameria si era specializzata assieme alla produzione di cornici in legno. Rispetto a queste ultime, la produzione delle persiane aveva garantito un margine più ampio di utile e consentito all’azienda di estendersi al di là del casolare di campagna in cui era nata, dapprima in un capannone di medie dimensioni e, poi, nello stabilimento attuale, che copre un’area di quasi 3000 metri quadrati. Una volta crollata la domanda, però, la proprietà avviò le procedure fallimentari.

Marco mi accompagna all’interno dello stabilimento dove le macchine – da quelle che riducono le travi di legno in assi a quelle che trasformano le assi in cornici di forme e dimensioni diverse – sono circondate da lavoratori in continuo movimento, concentrati sul loro lavoro senza per questo dare l’impressione di alienare qualcosa di sé. Il fatto stesso che questa riflessione si insinui tra il suono assordante delle macchine, il silenzio concentrato dei lavoratori e il profumo di legno lavorato è – dico a me stesso – il prodotto collaterale di anni trascorsi in continua sospensione tra i libri e la militanza in movimenti e associazioni. Questa è l’obiezione che faccio a me stesso, ma mi rendo immediatamente conto della sua inconsistenza. Ciò che i miei sensi percepiscono è troppo evidente per essere liquidato a una sensazione idiosincratica indotta da uno scetticismo autocritico, talmente distaccato dalla realtà da indurmi a non credere ai miei occhi.

Quando entra un cliente dalla porta dello stabilimento mentre Marco mi spiega il funzionamento delle macchine, intuisco la dimensione familiare di questo luogo di lavoro anche e soprattutto per coloro che non vi lavorano. Mentre Marco illustra al signore le tipologie di legno che verranno lavorate dalla cooperativa, osservo in silenzio gli enormi scaffali che ospitano le assi di legno grezzo e il legno lavorato, e mi chiedo come sia stato possibile che nessuno si sia mai interessato a questa realtà. La domanda resterà senza risposta.

Quando Marco ritorna entriamo nel secondo capannone, dove ha sede il suo ufficio. Qui mi racconta di quando, poco dopo l’avvio della procedura fallimentare dell’azienda, «cominciò a capire perché le persone si suicidano». Nessuna banca locale aveva accettato di investire nell’azienda, malgrado tutti ne apprezzassero la storia. A differenza di molti lavoratori nella stessa situazione, i dipendenti della Bolfra vennero anche a conoscenza della possibilità di investire i soldi dei tre anni di mobilità per creare una cooperativa e usufruire del finanziamento statale del Fondo di credito alla Cooperazione (Foncooper) garantito dalla legge Marcora del 1985. Allora, però, nessuno se la sentì di imbarcarsi in questa impresa collettiva. Sarebbe stata la solitudine della disoccupazione a convincerli del contrario: i silenzi e il disinteresse seguiti all’invio di curriculum li indusse a riconsiderare l’ipotesi che avevano inizialmente scartato. Nel 2012 otto ex colleghi divennero soci dell’attuale cooperativa, la cui attività è oggi specializzata nella lavorazione delle cornici: seppur meno redditizia rispetto a quella delle persiane, è questa attività a garantire una domanda più stabile.

Le difficoltà, tuttavia, non si volatilizzarono per magia dopo aver trasformato in cooperativa un’ex azienda a conduzione familiare. Oltre ai ritardi dell’erogazione dell’anticipo da parte dello Stato, i soci dovettero affrontare da subito le difficoltà finanziarie dovute alla carenza di informazioni esaustive: l’INPS trattenne dal finanziamento le ritenute fiscali dei cinque soci che si unirono ai tre fondatori appena un mese dopo l’istituzione della cooperativa (agli otto lavoratori nessuno aveva detto che l’anticipo dello Stato era da calcolare al netto delle trattenute solo per i soci fondatori, non per quelli aggiuntisi in seguito). Dato il fallimento della precedente gestione, il fornitore di energia chiese un acconto insostenibile per le neonate casse della cooperativa, i cui soci furono costretti a lavorare presso i locali di un altro stabilimento prima di trovare un accordo con un altro fornitore. L’assenza di competenze sul piano commerciale, inoltre, iniziò a farsi sentire quando la cooperativa cominciò a occuparsi anche di stabili casette in legno per i campeggi, inizialmente rivelatasi poco redditizia per un mercato come questo, bisognoso di strutture mobili.

La forza di questa realtà, però, è stata quella di trasformare in una risorsa questa delusione, specializzandosi nella produzione di pareti in legno per case. Sarà il mercato a dire se questa intuizione porterà i frutti auspicati.

Nel frattempo, il solo fatto che una falegnameria come questa sia ancora in funzione mi sembra valere più di molte argomentazioni sul passato, il presente e il futuro della sinistra. Nessun quadro ideologico ne ha ispirato la nascita e la durata. Bisogni materiali, la reciproca conoscenza e fiducia dei soci, la mancanza di alternative e una legge del 1985 ignorata dalla stragrande maggioranza delle piccole e medie aziende che continuano a chiudere sono state le condizioni necessarie e sufficienti della nascita di questa cooperativa. Quanto basta a non confondere l’arrivederci con cui io e Marco ci salutiamo con un addio.

 

La Nuova CEV di Empoli

Visto da fuori, lo stabilimento in cui ha oggi sede la Nuova CEV incute un certo rispetto agli occhi del visitatore. La navata centrale dell’edificio che un tempo apparteneva alla Manifattura tabacchi e che è sotto l’egida dei Beni culturali ospita un patrimonio di immenso valore, che va ben oltre la maestosa bellezza dell’edificio in mattoni. Ha a che vedere, anzitutto, con il vissuto e le doti semi-taumaturgiche di chi lo abita ogni giorno, tramandando l’esperienza pluridecennale di diverse generazioni di artigiani, che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi hanno forgiato dapprima il vetro comune per poi diventare i demiurghi di uno dei materiali più difficili e affascinanti da lavorare: il cristallo.

Una volta entrati, il rispetto provato di fronte alla visione di questa cattedrale industriale si trasforma rapidamente in una sorta di timore reverenziale, data l’insolita mescolanza fra sacro e profano che promana dall’attuale destinazione d’uso dell’edificio. In un tempo non troppo lontano, infatti, luoghi come questo erano percepiti come vere e proprie anticamere dell’inferno non soltanto per via delle temperature incandescenti dovute ai forni mal coibentati; l’accostamento era dettato dalle continue vessazioni che i sottoposti (levatori, portantini, aiutanti) erano costretti a subire, prima di poter entrare a far parte della casta privilegiata dei maestri vetrai.

Oggi quelle umiliazioni sono un lontano ricordo e le temperature si sono ridotte, anche grazie alle ultime generazioni di forni elettrici utilizzati all’interno della Nuova CEV. Il “Virgilio” di questa visita guidata si chiama Andrea Falaschi, il presidente della Nuova CEV dal 1990. È lui la memoria vivente delle diverse fasi che hanno scandito la storia della CEV prima e, in seguito, dalla Nuova CEV. Da quando si è specializzata nella lavorazione artigianale del cristallo, la storia della Nuova CEV si inscrive nel solco della continua ricerca dell’innovazione e della massima qualità dei prodotti: è stata la prima azienda dell’Empolese Valdelsa a sperimentare nuove tecniche di produzione, quali il robot levavetro, e le macchine a stampaggio semi-automatico; fu anche tra le prime aziende a dotarsi di innovativi macchinari dediti alla lavorazione a freddo dei manufatti. A differenza di altre vetrerie, però, è riuscita a sopravvivere alla crisi pluriennale che ha investito questo settore solo dopo aver abbandonato la produzione in serie assicurata dalle macchine e aver puntato sulla esperienza artigianale dei suoi maestri vetrai. Scelta, questa, che oltre a essersi rivelata vincente ha di fatto scandito il passaggio dalla vecchia gestione alla nuova. La Nuova CEV nasce dopo la liquidazione volontaria della CEV e la relativa vendita del vecchio stabilimento posto in via dei Cappuccini, vicino alla stazione di Empoli; con i soldi degli stipendi pregressi e del TFR che i lavoratori ricevettero dalla curatela, unitamente ai fondi provenienti da Foncoop e dalla legge Marcora, nel 1985 fu costituita la Nuova CEV. La scommessa degli allora soci fu grande: non fu facile scegliere di reinvestire le uniche fonti di reddito a disposizione in un progetto ancora da scrivere, solo pensato e desiderato.

Come spesso ci è capitato di sentirci raccontare dai diretti protagonisti delle imprese recuperate dai lavoratori in Italia, le difficoltà iniziali non sono certo mancate: oltre a rinunciare in parte ai propri stipendi, i soci hanno dovuto affrontare la carenza di competenze commerciali e direzionali, perché chi ricopriva quel ruolo nella vecchia CEV non partecipò alla nuova avventura. Gli ostacoli sono stati superati grazie alla scommessa (vinta) di puntare sul lavoro artigianale: il passaggio dalla CEV alla Nuova CEV è stato contrassegnato da una maggior specializzazione e perfezionamento del lavoro artigianale, confluito soprattutto nella lavorazione di oggetti di grandi dimensioni (come colonne e anfore) e degli articoli incamiciati (double verre). Da questo punto di vista, la storia della Nuova CEV è esemplare della capacità di resistere collettivamente alle sfide della competizione globale puntando sulla qualità dei prodotti fatti a mano, soffiati a bocca anziché sulla produzione di serie assicurata dai macchinari. Da quando fu compiuta questa scelta, la ricerca della perfezione ha cessato di essere un’opzione ed è diventata un obbligo (ad esempio, solo il 10% del materiale scartato durante il processo produttivo viene riciclato per mantenere la più alta qualità del prodotto). Ad oggi, i soci della Nuova CEV sono gli unici a usare forni elettrici in Italia invece di quelli a gas perché ciò assicura una resa qualitativa più alta. A differenza poi delle altre cristallerie, che propongono colori tradizionali come il blu, il verde e il rosso, i prodotti in cristallo della Nuova CEV spaziano dalle tonalità dell’ambra allo smeraldo, passando attraverso il turchese, il rosa e il nero ed altri ancora.

Le rifrazioni luminose di questi colori creano un effetto arcobaleno nella bottega in cui sono riposti i tesori della cristalleria. Le vetrine interne espongono bottigliette, bottiglie, anfore e articoli commissionati da alcune delle più grandi e affermate marche di profumi e liquori al mondo. Il segreto del successo della cristalleria è semplice: la lavorazione artigianale rende unici i pezzi prodotti dai soci della Nuova CEV, che si trasformano in veri e propri demiurghi delle idee dei committenti.

Più interessante ancora del prodotto finale, del resto, è il racconto del processo della loro lavorazione, nonostante avvenga in differita (quando ho la fortuna di entrare dentro lo stabilimento, infatti, i maestri vetrai hanno appena finito il loro turno). La lavorazione del cristallo è paragonabile a un ininterrotto processo alchemico di metamorfosi, che trasforma diversi materiali in polvere in una materia viva e incandescente, pronta ad assumere le sfumature cromatiche e le forme desiderate, prima di essere incisa e scolpita da veri e propri artisti della lavorazione a freddo. Silice, ossido di piombo, carbonato di sodio, carbonato di potassio, nitrato di potassio, borace pentaidrato, antimonio triossido: sono solo alcuni dei nomi astrusi degli ingredienti miscelati dal “composizioniere” della cristalleria, che al pari del “capo fabbrica” conosce solo metà della formula esatta delle polveri da inserire nei forni, le cui temperature raggiungono oltre i 1400° centigradi. Fra tutti i materiali citati, l’ossido di piombo è quello che conferisce al cristallo una rifrazione luminosa così particolare da renderlo simile al diamante e una “morbida durezza” tale da renderlo malleabile dagli incisori al termine della lavorazione.

Una volta fuse assieme queste materie prime, il cristallo trasparente è pronto per essere colorato attraverso l’aggiunta di ulteriori componenti (l’ossido di cobalto per il blu, il bicromato di potassio per il verde, l’oro per il rosso rubino). Dopo esser stato lasciato a riposare, il cristallo viene estratto in uno stato semi-liquido a una temperatura media di 1150° dai vetrai, che possono quindi lavorarlo utilizzando diverse tecniche di produzione che gli conferiranno la forma desiderata: le tecniche adottate vanno dalla pressa meccanica all’aria dei polmoni del “soffiatore”, passando attraverso la “mano libera” del maestro vetraio che impugna forbici, pinze compassi e altri piccoli utensili da lui stesso ideati e forgiati. A questo punto il cristallo è pronto per essere adagiato su un nastro trasportatore, che lo conduce attraverso un tunnel preriscaldato a 600° – la cosiddetta “tempera” – da cui fuoriuscirà dopo quattro ore circa a temperatura ambiente. Anziché essere considerato pronto per la commercializzazione, il prodotto in cristallo a questo punto viene sottoposto a un processo di lavorazione a freddo (moleria, lucidatura, sabbiatura, incollaggio, ecc.): in quest’ultima fase della lavorazione i prodotti vengono rifiniti dai molatori, decorati dai maestri incisori e, infine, lucidati e marcati a sabbia per evitarne la contraffazione.

Come in ogni lavorazione artigianale, i prodotti finiscono per essere più unici che rari. È a questa grandezza artigianale dei 32 lavoratori della Nuova CEV (di cui 20 soci), forse, che si deve il senso di rispetto trasmesso dalle mura in cui ogni giorno trasformano polveri impronunciabili in qualcosa di vivo, prezioso e affascinante. Al di là della materia lavorata, però, è la tenacia e il lavoro materiale di questi artigiani a conferire a questa cristalleria il suo inestimabile valore umano, oltre che commerciale.

Gli autori

Leonard Mazzone

Leonard Mazzone è assegnista di ricerca in Filosofia sociale presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di MIlano-Bicocca, dove sta conducendo un progetto intitolato “Mutualismi emergenti. Narrazioni e pratiche di reciprocità solidale ai tempi della sindemia”. Docente a contratto in Filosofia sociale (presso l’Università di Firenze) e in Filosofia della storia (presso l'Università di Torino), alla ricerca universitaria combina l'attivismo culturale e politico in Comunet-Officine Corsare (di cui è presidente). È autore di di diversi contributi apparsi su riviste italiane e internazionali, nonché delle seguenti monografie: “Una teoria negativa della giustizia” (Mimesis, 2014), “Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti” (Rosenberg & Sellier, 2017), di “Introduzione a Elias Canetti. La scrittura come professione” (Orthotes, 2017) e di “Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi” (Orthotes, 2020). È presidente del Collettivo di ricerca sociale della Rete italiana imprese recuperate.

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