Nella ricognizione degli strumenti necessari per l’identità (acquisizione, definizione, tutela) l’attenzione al concetto di memoria è fondamentale. Un concetto sicuramente da depurare di retorica, su cui lavorare con grande rigore: se c’è una memoria storica su cui occorre scienza e onestà, quella personale e collettiva non può prescindere dal sentimento, dal ricordo delle emozioni, dalla passione. La cura con cui la si custodisce deve avere occhio attento a chi verrà. È il concetto biblico di memoria, che si intreccia alla tradizione sapienziale: l’intelligenza con cui tramandi è tesa a dare ai posteri elementi per una vita consapevole, libera, piena, quindi felice o quantomeno risolta. Va da sé che, in tutto ciò, i mezzi audiovisivi assumono un ruolo di crescente valore, pur nel rischio costante della manipolazione. Nella massa ingente dei materiali della memoria le storie sono materia necessaria. Il sistema mediatico ne consuma in quantità ingenti, non sempre con un uso assennato. Vivere in un Paese come il nostro significa doversi confrontare con storie così intricate e dal profilo etico così sconvolgente che sembra impossibile poterle proporre. Per fortuna ci sono ancora autori che non hanno soltanto i mezzi, ma anche il coraggio di fare ciò.
Al caso Moro (sequestro, prigionia, omicidio) Marco Bellocchio aveva già dedicato nel 2003 Buongiorno notte, con un esito più che notevole: restava di certo molto altro da raccontare, visto che in questo film il regista assume il tratto narrativo a partire dall’esperienza di una delle carceriere di Moro, colta nella crisi del rendersi conto che è estremamente arduo caricarsi sulle spalle il peso della Storia. Una Storia che si concretizza in una scelta precisa, che spesso si ripropone: uccidere o no un essere umano. Chi si assume tali responsabilità deve comunque renderne conto, ben oltre ciò che accade in un Tribunale. Non ho in mente nessun proscenio divino: sto pensando in particolare alle generazioni che verranno e qui, nello specifico, soprattutto alle donne e agli uomini che lo volevano davvero un Paese diverso e che videro in parte vanificate le proprie fatiche per la supponenza spregiudicata di chi voleva farlo con il mezzo più disumanizzante, le armi.
La morte di Aldo Moro, in Italia forse è la storia per eccellenza, che riassume in sé molteplici riferimenti e significati: una massa ingente di fatti su cui molto è emerso, negli anni successivi. Bellocchio si prende un tempo di illustrazione più ampio rispetto a quello di un film e con Esterno notte, una serie televisiva per la RAI di 300 minuti suddivisi in sei puntate, torna a quanto avvenne tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. Lo fa con una scelta di sceneggiatura felicissima: se il primo episodio mette al centro lo stesso Aldo Moro, negli antefatti del sequestro, mostrandolo nella cerchia familiare e degli amici di partito, il secondo si concentra sulla figura di Francesco Cossiga e il terzo sul Papa Paolo VI. Adriana Faranda diviene il filo conduttore del quarto episodio, Eleonora Moro del quinto, mentre quello finale riassume le fila e conduce l’intersecarsi delle voci alla tragedia finale. Una ricognizione nelle vicende ma mettendo in luce sentimenti, angosce, il disagio (anche psichico, nel caso di Cossiga, forse la figura definita con più creatività) delle persone che l’hanno vissute: non una ricostruzione storica (pur senza uscirne, sul piano dei dati da trattare) ma con i mezzi artistici di chi fa memoria, e dà spazio alle emozioni di chi fu contemporaneo, suggerendo tra gli altri i tratti della pietà.
Se il giudizio storico dell’opera è espresso fin dalle prime sequenze – Moro aveva ben poche possibilità di tornare a casa vivo – il regista ribadisce la sua accusa ai vertici della DC chiudendo il film come aveva fatto in Buongiorno notte: con immagini di repertorio dei funerali di Stato (senza la salma dello statista, dato che i familiari, su indicazione di Moro stesso, non vollero esequie pubbliche: le celebrarono in forma privata a Torrita Tiberina) celebrati alla presenza del Pontefice in San Giovanni in Laterano. Nel passaggio dalla ricostruzione alla documentazione c’è indicazione precisa di quanto Bellocchio pensa degli eventi: un intreccio di elementi del tutto cogenti nella loro oscurità alle logiche delle classi dirigenti di questo Paese, spregiudicate e colluse con i poteri peggiori che si possono concepire. Poteri nel contempo posti di fronte all’incapacità delle Brigate Rosse di dare senso politico a quanto di incredibile erano riusciti a realizzare con il rapimento del presidente di uno dei maggiori partiti politici europei.
Uscendo dalla sala dopo la visione del film del 2003, ho ben vivido il ricordo di quanto gli spettatori si dicevano dopo aver assistito al prefinale, con un Aldo Moro che trova le porte della sua prigione aperte e se ne può andare libero nel primo mattino, in una città deserta: «Se davvero fosse andata così»… Ma poi la realtà riprende possesso del sogno nel repertorio del funerale. Bellocchio ripropone più volte i termini di questa speranza delusa e impossibile con sequenze che divengono l’espressione onirica di un desiderio collettivo (il regista ci fa vedere due versioni del ritrovamento di Moro nella R4, simili ma drammaticamente divergenti). Di certo resta forte la domanda – che il film affronta senza volerci dare, in fondo, elementi ulteriori per provare a capirci di più, dato che, ribadiamo, il suo è un intento prima artistico che storico – sul perché le BR fallirono la svolta storica che potevano dare alle vicende del potere politico italiano. Del resto sovente l’ideologia non illumina la visione: i brigatisti emergono dal racconto come espressione di una cultura che si condannò da sola, prima ancora che lo facessero i tribunali.
Come sempre nell’opera di Marco Bellocchio il livello simbolico è ricchissimo: chi vorrà seguire una delle indicazioni di lettura proposte dal regista stesso, nelle prime scene compare un riferimento cinematografico, un film del 1977 di Dino Risi, Anima persa, con Vittorio Gassman, dal romanzo di Giovanni Arpino. Cercate i riferimenti di libro e film; saranno illuminanti. Una parola da spendere sul cast: Fabrizio Gifuni è prodigioso nel rendere i tratti di Moro, Margherita Buy trova materia per la sua migliore interpretazione (è Eleonora Chiavarelli Moro), Toni Servillo più che il Papa non penso possa desiderare di interpretare, Fausto Russo Alesi è un Cossiga sconvolgente e Fabrizio Contri definisce un Andreotti apparentemente di basso profilo (Bellocchio a suo riguardo non affonda più di tanto il coltello: ma lascia alle parole di Moro un giudizio che personalmente non posso che condividere). Non manca nel film la citazione dell’ultima lettera alla famiglia, di triste bellezza: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto».
Concludo questo articolo il giorno dopo Pentecoste, memoria di una possibile realtà dello Spirito (che non riguarda solo i credenti, se si leggono bene i dati che la Scrittura ci dà per capirne il senso autentico; vita, energia, creatività, passione, verità). È Spirito dato per ricordare e imparare. E la Lettera ai Romani ci ricorda che «Lo Spirito è vita per la giustizia» (Romani 8,10).