Regia: Wong Kar-wai
Sceneggiatura: Wong Kar-wai
Cast: Maggie Cheung, Tony Leung Chiu-wai, Ping Lam Siu, Rebecca Pan, Kally Lai-chen
Fotografia: Christopher Doyle, Mark Lee Ping-bin
Montaggio: William Chang
Musiche: Michael Galasso, Nat King Cole, Shigeru Umebayashi
Hong Kong/Cina, 2000, melodramma, 98 minuti
La riapertura delle sale cinematografiche, oltre al nuovo film di Woody Allen Rifkin’s festival o al vincitore dell’Orso d’Oro all’ultima Berlinale Sesso sfortunato o follie porno del rumeno Radu Jude, offre l’occasione di farsi conquistare, o riconquistare, da uno dei film più tersi e implacabili d’inizio secolo: il melodramma In the mood for love di Wong Kar-way (2000), di cui è ora possibile vedere la versione restaurata grazie alla Tucker Film, che distribuirà anche una selezione delle prime opere del regista cinese di nascita e hongkonghese d’adozione.
Nella Hong Kong del 1962, la signora Chan e il signor Chow diventano vicini di casa, sfiorandosi, nell’arco di cinque anni, più volte in reiterate attività quotidiane e scoprendo di essere partecipi dello stesso doloroso segreto. Questo li avvicinerà in una forte relazione platonica e amicale che però dovrà fare i conti prima con i sentimenti e poi con i rimpianti. In the mood for love è quindi, per dirla in soldoni, la storia di un amore respinto dagli stessi protagonisti, poi vagheggiato e desiderato, e infine rimpianto e vanamente inseguito.
Wong Kar-wai dà forma e sostanza visiva, per così dire, a quegli interstizi morali, psicologici, sociali e culturali che creano un confine insuperabile tra realtà e desiderio, tra scelte “di fatto” e scelte interiori, e nei quali i secondi assumono le sembianze di una storia immaginata e vagheggiata – si vedano i momenti in cui i due protagonisti recitano e, appunto, immaginano come potrebbero andare dialoghi e comportamenti –, che può essere resa eterna solo se, secondo una leggenda cinese raccontata da Mr. Chow, consegnata e sussurrata al fluire della storia e alla stabilità del paesaggio; lo suggerisce lo splendido finale che lascia spazio e voce a un tempio cambogiano, il custode di questo amore segreto e impossibile, e che pare dialogare, per quei legami che si creano tra film diversissimi ma non del tutto estranei, con la chiusa de L’eclisse (1961) di Michelangelo Antonioni, esempio fondamentale di cinema che lascia all’ambiente circostante il compito di trasmettere gli abissi interiori dei suoi protagonisti.
Siamo quindi in territori sfuggenti e indefinibili, a cui Kar-wai dà concretezza e potenza soprattutto grazie al suo formalismo; la fotografia di Mark Lee Ping-bin e Christopher Doyle, i costumi, i ralenti, l’attenzione ai particolari, le scenografie, i movimenti della cinepresa e le musiche creano un’estetica che, oltre ad essere di per sé ammaliante e ben lungi dall’essere fine a se stessa, plasma una verità liquida, per la quale la composta realtà esteriore è schermo, a tratti molto fallace, anche nei due protagonisti nei confronti di loro stessi, di una tempestosa e, almeno un attimo prima di diventare drammaticamente lampante, caotica realtà interiore. C’è quindi nel lavoro dell’autore cinese un mirabile e apparente ordine formale ed estetico che lascia emergere un disordine emotivo e intimo, creando un’assoluta e implacabile aderenza ai sentimenti e al destino dei due protagonisti.
Significativo è, per esempio, l’uso del fuoricampo, da scuola di cinema, che interessa tanto lo spazio dell’inquadratura quanto quello, per così dire, più generale che fa da sfondo all’intera vicenda – l’evoluzione della colonia britannica e le imposizioni della società infatti poco si vedono, ma molto si percepiscono. Questo lavoro sul fuoricampo interessa sì i decisivi fattori esterni della vicenda, su tutti la già citata società con le sue convenzioni e soprattutto i rispettivi coniugi, o nascosti all’interno dell’inquadratura, o al massimo visti di spalle. Pure la signora Chan e il signor Chow sono però come spiati da un occhio quasi estraneo, raccontati da un punto di vista distaccato che pare inseguirli e osservarli con significative angolazioni della cinepresa e soavi movimenti di macchina; anche Mr. Chow e Mrs. Chan quindi appaiono spesso, almeno per un attimo, o tagliati, o incorniciati nell’ambiente o “aspettati” dallo sguardo del regista, che talvolta prima di intercettarli si concentra su oggetti (il ricorrente orologio), e anche i loro pur frequenti, soprattutto nella seconda parte, primi piani paiono essere in qualche modo frutto dello sguardo di un osservatore distante.
Un distacco che è formale e di sguardo, ma che certamente non crea distanza nello spettatore, contribuendo anzi in maniera decisiva al gioco tra ordine ed eleganza formale ed estetica e disordine emotivo, e a rendere quindi concreto ed emotivamente implacabile il racconto delle condizioni interiori e del contrasto tra necessità e scelte esterne e sentimenti e scelte intime.
In the mood for love è, per concludere, un film splendido e ammaliante, incendiario, pur nella sua eleganza e pur non andando mai sopra le righe, per chi guarda. Decisivo è il formalismo, non fine a se stesso, ma che anzi ribadisce, vent’anni dopo la sua uscita, come buona cosa sia che le immagini – così come le parole o le note – dicano anche altro oltre la loro immediata apparenza, di Wong Kar-wai al suo massimo splendore, ma degni di almeno una nota sono anche i due iconici protagonisti Maggie Cheung e Tony Leung Chiu-wai e la colonna sonora, in particolare con lo struggente tema di Yumeji di Shigeru Umebayashi.