Provate a immaginare un’intervista a un lavoratore o a una lavoratrice esternalizzati in forza presso le biblioteche accademiche dell’Università di Torino. Probabilmente inizierebbe così: lavoro da più di vent’anni, sempre nella stessa struttura (o comunque sempre presso lo stesso ateneo e all’interno del medesimo servizio), sempre da precario/precaria.
Siamo talmente abituati a usare espressioni di questo tipo che ormai non ci accorgiamo nemmeno più dell’ossimoro. Eppure è vero. Come si potrebbe definire una carriera caratterizzata dall’incertezza di un susseguirsi di appalti, a volte triennali a volte, e per un lungo periodo, annuali e dalla continua minaccia di tagli in nome della razionalizzazione e dell’ottimizzazione del lavoro negli enti pubblici? È pur vero che i nostri contratti sono a tempo indeterminato, il che esclude noi e chiunque sia nella nostra situazione dalle statistiche sul lavoro precario, ma il nostro lavoro è sempre stato legato agli appalti d’ateneo. Per essere più espliciti, se l’Università decidesse di eliminare o ridurre l’appalto a cui siamo legati, la ditta o la cooperativa per cui ci trovassimo a lavorare in quel momento ci licenzierebbe perché non esisterebbero più il posto e le mansioni per le quali siamo stati assunti e assunte.
Questa situazione è comune anche a chi svolge mansioni di portierato o di pulizia e di per sé porta al suo interno un valore aggiunto: la possibilità, per l’ente, di avere personale plasmato sulle proprie esigenze per quelle che non sono mansioni occasionali, ma parte dell’ordinaria amministrazione.
In fin dei conti tutta la nostra esperienza di lotte in difesa del posto di lavoro, ruota più o meno direttamente attorno all’idea che l’Università debba in qualche modo prendersi carico del personale che contribuisce al funzionamento delle sue strutture e che le ha dato, da un punto di vista professionale, i migliori anni della propria vita (lavorativa), quelli in cui maggiore è l’energia, l’entusiasmo, la capacità di apprendimento. D’altronde se non si fosse trattato di un ente pubblico, sarebbe stato semplice dimostrare l’interposizione di mano d’opera e ottenere un’assunzione diretta.
La peculiarità delle nostre battaglie, che ci hanno più volte messo al riparo da minacciati tagli, è stata l’inclusività, il tentativo di non chiudersi nella propria specificità e di non fare battaglie sindacali “lobbistiche”, ma la ricerca costante di includere le rappresentanze sindacali dell’Ateneo, i colleghi strutturati, gli studenti, cercando, inoltre, di partecipare anche alle loro iniziative. Questo ci ha fatto crescere enormemente: da lavoratori atomizzati a collettivo e da collettivo a rete. Questa tipologia di lotta si è rivelata efficace anche nell’attività sindacale più tradizionale, quella di trattativa con le cooperative o le ditte che nel tempo sono state nostre datrici di lavoro.
Il primo risultato rilevante fu ottenuto, grazie soprattutto a un buon lavoro dell’RSU interna dell’Università, agli inizi degli anni 2000 con l’introduzione, in capitolato, di un preciso riferimento a un CCNL, quello del commercio, e un livello minimo, il terzo. Ciò ha permesso di dare maggiore stabilità al personale che fino a quel momento, causa condizioni lavorative più sfavorevoli, era soggetto a un forte ricambio. Nella lettura distorta di qualcuno, questo fu invece l’origine del problema perché avrebbe dato ai lavoratori l’illusione di una stabilità che rimaneva però solo apparente. È un’opinione che si può tranquillamente trascurare per la sua inconsistenza perché è evidente che non sarebbe stato possibile gestire il servizio bibliotecario con personale in continuo ricambio (o ricatto), ma val la pena di essere riportata per dare conto dei cortocircuiti che le nostre rivendicazioni sindacali hanno generato nel tempo.
Era il 1991 quando l’Università degli Studi indiceva il primo appalto per i servizi di accoglienza al pubblico nelle proprie biblioteche immettendo la precarietà tra i tecnici/amministrativi in ateneo.
In quegli anni nasceva anche il privato sociale e la sua mitologia di cooperazione che avrebbe portato, si diceva, a un beneficio, data la condizione paritaria dei lavoratori come soci dell’impresa cooperativa e le nuove possibilità imprenditoriali miste pubblico/privato che si affacciavano sul mercato. Invece in poco più di venticinque anni chi lavora in appalto si ritrova sempre più stretto nella morsa della precarietà che, da periodo temporaneo nella vita di un lavoratore, è diventata la quotidianità, mentre il sistema dell’esternalizzazione del personale, in questo ateneo come in ogni altro ente pubblico locale o governativo, è diventato la normalità. Contemporaneamente le cooperative sono cresciute a dismisura diventando aziende dai bilanci milionari prodotti da centinaia di soci sacrificando ogni democraticità interna in nome del mercato. Una nuova classe dirigente imprenditoriale, ben rappresentata dall’ex ministro Poletti, è nata all’interno delle cooperative approfittando dell’osceno “commercio” del lavoro altrui.
Questo perché le scelte politiche neoliberiste dei governi di qualsiasi colore che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno distrutto il lavoro pubblico additandolo come responsabile dell’enorme debito italiano e trasformandolo in una merce da mettere all’asta al miglior offerente con la conseguenza di privare di diritti i dipendenti e metterne il reddito sotto costante pressione.
La contraddizione principale è insita nel sistema: oggi i servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione agli enti locali, non sono più “pubblici” dato che si reggono sul lavoro malpagato e non riconosciuto di dipendenti privati precari provenienti da appalti con gravi conseguenze sul funzionamento stesso dei servizi.
Noi sappiamo bene che senza il nostro lavoro le numerose biblioteche dell’Università non potrebbero funzionare e neanche aprire al pubblico, ma nonostante ciò l’amministrazione non mostra nessun interesse a porre fine alla nostra precarietà.
Nei mesi scorsi siamo riusciti a spingere l’amministrazione dell’Università a considerare delle alternative all’appalto, con la creazione, ad esempio, di una partecipata dell’Università stessa che prendesse in gestione il servizio, ma la volontà politica non è stata abbastanza forte da superare le poche difficoltà tecniche che avrebbe comportato. In verità la vera ragione è che l’esternalizzazione garantisce una flessibilità e una possibilità di sfruttamento elevatissimo, senza che peraltro questo figuri ufficialmente tra le politiche di Ateneo. È stata una conclusione molto deludente.
Quel che ferisce, e non solo come lavoratori e lavoratrici coinvolti, è lo spreco di energie intellettuali che l’Università mette in opera, confermandosi in un’autoreferenzialità imbarazzante. Al suo interno esistono infatti fermenti in grado di dar vita a cambiamenti. Però, in fase attuativa, invece di valorizzarli e consegnare alla società almeno qualche goccia di distillato prezioso, tutto viene fatto inacidire e all’esterno viene spacciato il solito aceto industriale tipico degli organi decisionali di qualunque livello. È un aceto che ha i suoi vantaggi: è standardizzato, riconoscibile, etichettabile, vendibile in tutta Europa. Però è cattivo e non è migliorabile. È inutile utilizzare le “uve migliori” se poi il prodotto viene corrotto nel corso del processo politico-decisionale.
Non vorremmo si pensasse che il nostro atteggiamento sia di commiserazione. Siamo perfettamente consapevoli che, nel panorama lavorativo attuale, la nostra posizione potrebbe quasi apparire privilegiata e le nostre richieste un ulteriore privilegio. Siamo però convinti che chi è più disperato abbia più difficoltà ad alzare la testa e che quindi sia giusto che lo faccia chi, come noi, è in una posizione leggermente migliore. Chiedere la fine dell’esternalizzazione non è chiedere di essere ammessi a un privilegio e questo diventa subito evidente leggendo le cronache e constatando la percentuale di infortuni gravi e fatali che coinvolgono i lavoratori esternalizzati. Bisogna ritrovare il senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori e questo lo si ritrova solo con la fine dell’esternalizzazione. In caso contrario è quasi inutile legiferare su diritti e sicurezza.
Abbiamo pagato anche troppo! È ora di riprendere a investire seriamente sul lavoro e per il lavoro: vogliamo i diritti che ci avete preso per dare un futuro a noi e a tutte le generazioni che fino ad oggi abbiamo dimenticato e abbandonato.
Per il prossimo futuro ci toccherà un noioso e faticoso lavoro di lettura ed esegesi del testo del nuovo capitolato per scovarne difetti e trabocchetti nonché, sulla lunga durata, un’azione di resistenza alla flessibilità che immaginiamo ci possa venire richiesta. Vogliamo garanzie sul contratto che ci verrà applicato, vogliamo un calendario di servizio che non ci obblighi, come accade oggi, a riposi forzati non retribuiti, vogliamo avere le medesime opportunità formative dei nostri colleghi strutturati, vogliamo avere le medesime garanzie di tutela della salute.