Aveva ragione da vendere Ludwig Wittgenstein nel sostenere che per capire le cose bisogna osservarle o da molto vicino o da molto lontano. Tutto il contrario di quanto accade a noi, succubi di una generica posizione mediana – né carne né pesce – che ci impedisce di godere tanto della visione ravvicinata e millimetrica del microscopio, quanto di quella a lunghissima distanza offerta dal telescopio. Al nostro occhio, ahimè, altro non resta che immergersi totalmente in un fricandeau mediatico, generico e confusivo, con l’ultima voce pronta ad annullare la precedente.
Del resto questo è il motore primo dei media, a dispetto della frottola secondo la quale, quanto più siamo “informati”, tanto più siamo in grado di farci un’idea sui problemi che dobbiamo affrontare. Non è vero. E non lo è perché la bulimia informativa divora se stessa e prima ancora perché ogni informazione soggiace immancabilmente al mondo delle presupposte “opinioni”. Senza le quali, di fatto, non si ha accesso all’universo mediatico.
Solo chi ha un’opinione, tanto meglio se sventata, apodittica, non argomentata, sarà il benvenuto nei diversi talk-show; chi invece procede in modo dubitativo, o facendo leva su un ragionamento complesso, verrà gentilmente accompagnato alla porta.
L’esito ultimo, neanche a dirlo, è manicomiale. Tanto più grave in un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo. A ogni sera del giorno e della notte, saltabeccando da una rete all’altra, ecco comparire le solite facce della solita compagnia di giro (ma lor signori non fanno mai un pisolino? Non sono tentati di leggere un libro? Preparare in silenzio una bella minestra? Innaffiare i vasi? Fare una carezza al cane?). Quanto invece alle poche persone preparate e di buon senso, prima o poi vengono risucchiate dal mezzo, visto che come ammoniva Jannacci, la televisiun la g’ha na forsa de leun. Una forza tale da consentire anche l’improvvida rinascita di personaggi inauditi. Come l’ineffabile Flavio Briatore, che tra il lusco e il brusco, è tornato a imperversare sugli schermi televisivi (anche di trasmissioni, soi disant, di qualità) e discetta sul Bene e sul Male come un novello Aristotele.
Che fare davanti a questo obbrobio? Spegnere la tivù, è ovvio. Provare a praticare una modesta quanto salutare ecologia della mente. Cercando intanto un qualche conforto in chi conosce le cose per esperienza diretta, dunque da molto vicino (lo sguardo del microscopio), o in chi le osserva con il telescopio, cioè da molto lontano: il grande pensiero filosofico-scientifico, la grande arte, la grande poesia.
E giusto a proposito di poesia. Ogni volta che non ho un’opinione, cosa che mi capita spessissimo, immancabilmente ripenso al giovane Keats, che di fronte alla facondia dei ben più famosi Coleridge e Wordsworth, si ritirava silenzioso in un angolo. Aggiungendo di essere felice di non avere opinioni su questo e su quello, perché le opinioni, sosteneva, uccidono il pensiero. Se valeva allora, figuratevi oggi.