Dare voce alla vita

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Con Noi (Bompiani, 2020) Paolo Di Stefano non solo ha scritto il suo libro forse più significativo ma anche uno dei migliori e più originali romanzi italiani contemporanei.
Già la qualifica di “romanzo”, che campeggia in copertina sotto il titolo, è in questo caso ambigua. Le quasi 600 pagine di testo infatti raccontano con precisione, a volte minuziosa, eventi reali, e cioè la storia della famiglia Di Stefano lungo lo scoscendere di quattro generazioni: nonni e genitori dell’autore e dei suoi fratelli e relativi figli. E il libro può essere letto anche come un lascito all’ ultimogenita dell’autore, Maria, che fa capolino tra le pagine e intreccia col padre brevi dialoghi di commento, spesso in un codice fantasioso e intimo.
Una famiglia difficile, di Avola, con il ramo materno dell’autore mite e affettuoso e invece i nonni paterni conflittuali col figlio Giovanni (Vannuzzo) e la nuora Corradina (Dina): in modo violento e selvaggio il nonno, don Giovanni u Crucifissu, pecoraro sciupafemmine, vittimistico e ricattatorio la nonna Mariannina. L’evocazione del privato (tende, mobilia, liquori dolciastri, amari digestivi, nocino, la grappa di genziana, oggetti ormai dimenticati, come il mangiadischi per ascoltare le fiabe) si intreccia con eventi storici (a cominciare dallo sbarco degli americani in Sicilia e i tedeschi in ritirata), con richiami cronachistici (canzoni, fumetti, rotocalchi popolari, eventi sportivi…). E poi ci sono i mutamenti del costume, la Milano degli anni Cinquanta che preparava il boom degli anni Sessanta, la povertà arcaica del Sud e usanze altrettanto remote, ma un tempo frequenti anche nelle campagne settentrionali, come quella di u Crucifissu, che in un antro di casa teneva “un bottiglione scuro con dentro un sacchetto legato al turacciolo da una cordicella: in quel sacchetto penzolante dentro il bottiglione il femminaro teneva i risparmi in banconote o monete”. Uno dei tanti tratti, questo, che a me ricordano un vecchio libro mitico per generazioni intere, Le novelle della nonna, di Emma Perodi.
Noi, allora, non è soltanto una saga famigliare. È anche l’epopea delle migrazioni interne, dal Sud verso Nord, Roma, Lodi, Milano, Mandello del Lario, Pioltello, Lugano… tappe di un esodo senza fine, come senza fine è il richiamo del ritorno ad Avola per Vannuzzu, il padre dell’autore. Storia vera, dunque, non romanzo, di persone in carne e ossa, poveri e arricchiti, succubi e prepotenti, in un mondo descritto con partecipe precisione cronachistica.

Nell’ assegnazione dei ruoli ovviamente nonni e genitori dell’autore, oltre all’evocato fratellino Claudio, morto di leucemia ancora bambino, hanno un ruolo preponderante. La straordinaria madre Dina (Dinuzza), donna bella mite premurosa e insieme fortissima, che con paziente determinatezza subisce per amore del marito la prepotenza dei suoceri riuscendo però a non farsene sopraffare e salvando l’integrità della famiglia; Vannuzzu, che dopo vari lavori più o meno precari diventa autorevole professore di lettere al liceo Cattaneo di Lugano. Colto, appassionato della cultura classica, preciso fino alla meticolosità, ma incapace di liberarsi dal giogo di Avola, del padre tiranno, dei ricatti sentimentali della madre, per tutta la vita oscillerà tra i due mondi, il Nord svizzero e il Sud mediterraneo. Ma la tensione interiore lo porterà anche a scatti di rabbia e di violenza di cui i figli saranno il primo bersaglio. Ma le pagine sulla sua vecchiaia e morte sono commoventi.

Il tutto, “messo in forma” letteraria, diventa narrazione romanzesca. Una sorta di Buddenbrook mediterraneo più che un ennesimo prodotto del new realism o della decantata autofiction (di cui peraltro è maestro Emmanuel Carrère, autore amato da Di Stefano scrittore).
In proposito, però, bisognerebbe ricordare quanto scriveva Italo Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto: “In un certo senso, credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.” Non a caso questo passo di Calvino mi è venuto in mente leggendo, in Noi, le righe stampate in rosso, a volte a giustezza di pagina più spesso raggruppate in forma di calligrammi, che riportano, come una sorta di controcanto, le parole di Claudio, il fratellino dell’ autore morto a cinque anni di leucemia: parole tenere, fantasiose, spesso scherzose e argute, ma sempre in una tonalità elegiaca, come venissero da un mondo sospeso. Via via, man mano che si avvicina la fine, il cambio di registro diventa struggente per il lettore.
Già ne La catastròfa Di Stefano aveva evitato il rischio della documentarietà giocando sul piano linguistico con le voci e i dialetti dei superstiti di Marcinelle. È infatti scrittore troppo avvertito per ignorare che, anche senza essere postmoderni, la realtà si conosce solo attraverso l’interpretazione e che si è scrittori proprio per prendere alle spalle gli accadimenti del quotidiano e liberarli dalla loro opacità e dare un senso alle nostre vite. Qui, secondo me, fa un passo avanti: l’ apparente fragilità della parola riscatta la realtà dalla pena e dal dolore, la redime dalla pesantezza dei fatti. Come in un’ operazione alchemica, la elabora in conoscenza ed esperienza. E alla domanda, non retorica, che Di Stefano si pone (e pone ai suoi lettori): “Che cosa raccontiamo in realtà quando ci proponiamo di raccontare la nostra vita?” lo scrittore risponde con la “messa in forma” del suo vissuto. Non è un’ esibizione delle proprie busecche sulla bancarella del mercato, come temeva Cesare Garboli quando parlava di romanzi, ma la condivisione, e quindi il dono, di zone inaccessibili alla razionalizzazione. La trasformazione in destino di ciò che sembra casuale. E soprattutto una lotta contro la morte.

Gli autori

Gianandrea Piccioli

"Una lunghissima esperienza alla guida di marchi storici, prima Garzanti, poi Sansoni, più tardi Rizzoli, ancora Garzanti, a settant’anni è considerato uno dei grandi saggi dell’editoria («Ma che esagerazione, sono solo capitato fra le due sedie: dopo i grandi e prima del marketing»), cresciuto alla Corsia dei Servi, l’eretica libreria milanese che negli anni Sessanta mescolava Bellocchio e padre Turoldo. Passo resistente da montanaro, è abituato a scalare le vette impervie di giganti quali Garboli o Garzanti, Steiner o Fallaci. L’editoria che incarna è molto diversa da quella attuale, «per imparare il mestiere non ti portavano a fare i giochi di ruolo in luoghi esotici». Quasi dieci anni fa la decisione di lasciare, «perché il mondo era cambiato e non riuscivo più a intercettare il mutamento». Oggi il suo sguardo appare molto nitido, nutrito di letture meticolose condotte nel buen retiro di Rhêmes o nel silenzio di Casperia, un borgo medievale nell’alta Sabina. «La crisi dell’editoria è una crisi culturale. Si fanno troppi libri, molti anche interessanti, ma oscurati dalla censura del mercato. E soprattutto le case editrici hanno rinunciato a un progetto, a una visione complessiva che suggerisca un’interpretazione del mondo»" [da https://ilmiolibro.kataweb.it].

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