Ultima chiamata

image_pdfimage_print

Ultima chiamata

 

Dunque, “c’è vita a sinistra”. Così sembra dire l’esito delle primarie del PD. Vita a sinistra, nel senso della galassia che ancora vota e simpatizza per quel partito, e che a valanga ha eletto segretaria Elly Schlein. Assai meno, molto meno, nel Partito stesso, nel suo (residuo) corpo “militante” che aveva invece incoronato Stefano Bonaccini, con una ventina di punti di distacco sulla diretta competitrice.

Ultima chiamataE’ vero che il senno del poi non vale granché, ma a ben pensarci se ci avessimo riflettuto a mente fresca e non inquinati dal sottofondo mediatico, questo risultato avrebbe potuto essere ampiamente prevedibile. Per molti versi inevitabile, perché riguarda l‘ esistenza pura e semplice dell’elementare “istinto di sopravvivenza” che caratterizza qualunque organismo in natura proteggendolo dall’estinzione. E, senza una svolta netta e chiara, il PD era, con tutta evidenza, destinato all’estinzione. Potremmo dire, era già estinto, come riconoscibile forza anche solo vagamente di sinistra o di centro-sinistra. Il processo di separazione dal suo “popolo” – da quello che un po’ enfaticamente è stato chiamato il “popolo di sinistra” -, era andato così avanti, e così in profondo, che in un quadro di continuità non lasciava intravvedere più alcun punto di rimbalzo. Basta d’altra parte rileggersi l’editoriale sulla Stampa di domenica scorsa (26 febbraio, il giorno delle primarie) firmato da Massimo Giannini, un osservatore non certo sospettabile di antipatia preconcetta per quel partito, il quale scrive che, allo stato attuale, in esso “pare ormai perduta ogni gravitas, ogni coscienza di sé e del suo posto nel mondo e nella Storia”. E aggiunge: ”E’ una sinistra sospesa tra Kafka e Sanremo. Da una parte si macera in un congresso lungo cinque mesi, tra regole esoteriche e astrusi commi22. Dall’altro lato si crogiola con le canzoni di Ultimo dopo aver dimenticato gli ultimi e con i testi di Rosa Chemical dopo aver archiviato quelli di Rosa Luxemburg”. E’ evidente che una tale miserabile condizione (e conduzione) imponeva, per sopravvivere, non solo e non tanto un “cambio di passo”, ma un reale mutamento di orizzonte. Gli elettori, per lo meno quelli che non si sono ancora rassegnati alla disillusione degli ultimi anni, lo hanno capito. E hanno battuto un colpo. Gli iscritti, gli esigui drappelli di iscritti che hanno continuato a rinnovare la tessera, no.

Ultima chiamataLa geografia del voto, d’altra parte, parla da sé. Elly Schlein vince con percentuali bulgare nelle grandi città, la parte di Paese in cui il Partito democratico alle elezioni politiche di settembre aveva meno ceduto allo tzunami della peggior destra dell’ultimo settantennio: a Milano, dove triplica i voti rispetto a Bonaccini (72 a 28)! A Roma e a Torino, dove il centrosinistra aveva tenuto il Comune alle ultime amministrative e dove ora l’outsider quasi doppia il potente rivale (65% a 35 e 64 a 36). Nella stessa Bologna, cuore del regno bonacciniano, dove il Governatore sta sotto di quasi 20 punti rispetto alla sua vice. A Genova, dove evidentemente, pur circondata dalla destra, resiste una sinistra non del tutto rassegnata e dove il rapporto è di 70 a 30, esattamente come nella Firenze che fu di Matteo Renzi e che ora chiede con voce potente di chiudere con quella brutta storia. Persino a Palermo, dove pur ha votato un esiguo drappello (4645 elettori) la domanda di cambiamento è stata schiacciante con un plebiscitario 74 a 26! Insomma, quella parte di elettorato che soffre profondamente la deriva disastrosa di questo Paese (dovuta in buona parte anche alla dissennata politica della gestione Letta e del suo gruppo), e che ha ancora mantenuto la voglia di uscire di casa per votare e tentare di opporsi al corso delle cose, ha detto la sua forte e chiaro. Probabilmente se l’esito di queste Primarie fosse stato diverso, se avesse vinto l’inerzia del “partito delle tessere” sulla rivolta del “partito delle opinioni”, quel residuo di buona volontà civile si sarebbe ritirato silenziosamente nell’astensione alle prossime scadenze elettorali. Già gli endorsement assurdi di Letta e Bonaccini alla persona di Giorgia Meloni e al suo governo infarcito di nostalgie postfasciste erano suonati come uno sfregio alla voglia di opposizione di chi ancora il 24 settembre aveva votato a sinistra. Se dal voto del 26 febbraio fosse stata confermata la linea – ma nemmeno di linea si tratta, di mood piuttosto – di quella strana coppia, questo sarebbe stato percepito come una prova definitiva dell’ immodificabilità di una situazione giudicata intollerabile.

Detto questo, bisogna aggiungere che dare un segnale di vita non significa garantirsi di potersela vivere quella vita, in salute. Fuor di metafora, questo vuol dire che per Elly Schlein e per il Partito che è stata chiamata a guidare, i problemi non sono certo finiti con la “prova dei gazebo” Anzi, incominciano ora. E non sono certo di facile soluzione. Si può cambiare un corpo dalla testa (ricordate Le teste scambiate di Thomas Mann)? Che cosa è diventato quel “corpo” in questi quindici anni dalla sua nascita, e nella metamorfosi che ha subito da quando nell’ultimo decennio del Novecento tutto è cambiato? E’ in qualche modo “redimibile” rispetto alla vocazione dissolutiva che l’ha caratterizzato nell’avvicendamento di nove Segretari, ognuno respinto con perdite? Le antinomie che queste primarie d’eccezione consegnano a Elly Schlein, al Partito democratico, al popolo delle Primarie e in fondo a tutti noi, sono pesanti: Gazebo vs Sezioni, Opinione vs Tessere, Elettori vs Amministratori, Ceto medio riflessivo vs Burocrazia guardiana di partito. La nuova Segretaria generale dovrà governare un Partito che non è (ancora?) il suo: che è maggioritariamente occupato da quello che è stato il suo avversario e che, sembra di leggere tra le righe delle prime dichiarazioni, se ne considera ancora azionista di maggioranza. Una sorta di “co-abitazione” tipica del semi-presidenzialismo francese, delicatissima da gestire, soprattutto se si tiene conto del fatto che i gruppi parlamentari non stanno certo, nella loro maggioranza, con la nuova Segretaria, anzi (alla Camera l’hanno sostenuta in 25 su 67, al Senato 17 su 38). E che il “corpo” del Partito si è modificato, e in parte ossificato, in questi anni di costante dimagrimento, dagli originari 831.000 iscritti del 2009 ai poco più di 300.000 del 2021 (ultimo dato disponibile): spariti i gruppi sociali strutturati, operai, insegnanti, ha visto crescere il peso degli “amministratori” (il mitico “partito dei sindaci”) e un coacervo di gruppi d’ interesse (i “giri” di cui ha parlato Gustavo Zagrebelsky) dipendenti in notevole misura dal reticolo dei poteri locali e dal governo e sottogoverno. Né è passata senza lasciar segni l’infausta stagione renziana, in cui ai vari livelli il partito ha visto crescere nelle proprie strutture il peso di quanti si riconoscevano nello spirito del Capo e da lui erano riconosciuti, nella rispettiva furia di liberarsi di ogni traccia di tradizione storica. Ci si può interrogare su cosa faranno, tutti costoro, di fronte a una nuova linea politica che rompa col passato: Scissione? Opposizione interna più o meno sorda? Allineamento più o meno tattico? Mimetismo per poter meglio sabotare, secondo uno stile raffinato per anni e anni (ricordate i 101 che impallinarono Prodi?). Così come ci si può chiedere, legittimamente, se un partito così geneticamente modificato possa ancora essere riconvertito a un’azione di opposizione quale la situazione richiederebbe e la nuova Segretaria promette (“Saremo un problema per il governo Meloni”). Non sembra essere andata troppo lontana dal vero Michela Murgia quando ha parlato della “donna giusta al posto sbagliato”. Nel senso che anche se le intenzioni sue personali e di quelli che l’hanno accompagnata in questa avventura fossero le migliori, con quali strumenti potrà attuarle? Con quali “forze”, in una comunità che ha dilapidato il proprio patrimonio non solo d’identità ma anche umano all’interno di una pratica ultradecennale di sistematica contrapposizione a quanto nella società si muoveva in opposizione all’establishment, al servizio di un credo neoliberista abbracciato da neofiti ma affermato con tutto il repertorio del professionismo politico e della mobilitazione mediatica.

E soprattutto come potrà (e vorrà) riconquistare la fiducia di quella massa di elettori che da tempo hanno smesso di votarlo, quelli “fuori dalla ZTL”, per intenderci, finiti nell’immensa palude dell’astensione o peggio passati al consenso a destra: quelli che non c’erano ai gazebo, o c’erano in misura relativa (Elly Schlein può accreditare alla propria vittoria i risultati di Scampia col clamoroso 334 a 43 per lei, o di Secondigliano, 279 a 44), ma che restano indispensabili per pesare davvero sulle sorti del Paese. Per loro non basterà il tipico consenso d’opinione, occorreranno obiettivi, linguaggi, proposte chiare su lavoro, diritti sociali, reddito, salute, pace e guerra. Finora – ma è davvero troppo presto per valutare -, si sono sentiti dei messaggi inequivocabili e forti sui cosiddetti “diritti di ultima generazione” o “post-materialistici”, delle buone intenzioni, quantomeno sui temi sensibili del lavoro e dei diritti sociali, e un silenzio imbarazzato sulla questione della guerra in Ucraina e sulle armi, come ha opportunamente rilevato Rosy Bindi (“non mi piace il suo silenzio sulla guerra in Ucraina. Sarò molto attenta su questo tema”) la quale ha anche aggiunto che a suo parere la neo-Segretaria come suo primo atto “dovrebbe andare a Crotone”. Ed ha ragione: quantomeno negli ultimi anni il “primo atto” dei nuovi segretari che si sono succeduti ha prefigurato, in qualche modo, il loro destino politico. Zingaretti scelse di andare in Val di Susa in omaggio ai suoi Si-Tav e in spregio ai sentimenti di un’intera valle, e non gli portò bene: si dimise con la ben nota affermazione che si “vergognava del proprio partito”. Enrico Letta fece una scelta più interna, decise di recarsi al circolo del Testaccio in omaggio alle sezioni del Partito, ed è finito con le sezioni travolte dai gazebo. Un gesto finalmente nobile da parte della prima segretaria donna del partito, quale sarebbe l’omaggio alle vittime del naufragio di Crotone e del disumano atteggiamento delle nostre autorità di governo, darebbe un segnale incoraggiante di una ritrovata umanità in quel partito.

E’ difficile oggi, a ridosso del grande ribaltone, dire se esso possa rappresentare la “resurrezione di Lazzaro” o al contrario il “rimbalzo del gatto morto”. Certo è che se dovesse materializzarsi la seconda (e in molti temono più probabile) ipotesi, se ancora una volta le forze conservatrici e autodistruttive di quell’aggregato dovessero prevalere, non ci sarebbe più un’altra opportunità. La storia della sinistra italiana, di “quella” sinistra che si è accreditata in forma monopolistica nelle istituzioni rispetto a tutte le altre possibili, nell’ultimo quindicennio, potrebbe dirsi davvero finita. Un’ennesima delusione delle aspettative di riscossa e di rinnovamento, dopo questo così perentorio (e disperato) soprassalto, sarebbe letale.

Questa davvero è stata l’Ultima chiamata.

 

Una versione parziale di questo articolo è pubblicata in The international Post di questa settimana.

Gli autori

Marco Revelli

E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "Populismo 2.0". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).

Guarda gli altri post di:

3 Comments on “Ultima chiamata”

  1. Certo, non basta il risultato, il consenso ottenuto nei gazebo. Occorrono “obiettivi, linguaggi, proposte chiare”, dice giustamente il professor Revelli. Soprattutto il linguaggio, direi, è importante, anzi decisivo, perché da esso dipenderà la chiarezza delle proposte, l’evidenza e la concretezza degli obiettivi, la trasparenza e la coerenza delle idee. Non bastano le buone intenzioni sul recupero dei diritti che il renzismo ha sacrificato sull’altare del liberismo, vendendo così l’anima stessa del Pd al diavolo. L’impressione è che nella giovane e, secondo alcuni, anche inesperta Schlein (Cacciari, ad esempio, parla di “fantapolitica”) si ritrovi ancora un linguaggio che non nomina e non rivela le cose nella loro semplicità, nella loro essenzialità, un linguaggio che non sa coglierle ed evidenziarle anche nella loro complessa interdipendenza dialettica, nella loro problematicità. Occorrerebbe un linguaggio capace di evocare e di difendere le radici dell’umano, di parlare umanamente dell’uomo e della necessità di impedire un nuovo e più vasto naufragio dell’umanità, di evitare che essa si autodistrugga, di scongiurare che il barcone sul quale tutti quanti noi navighiamo a vista non vada anch’essa in frantumi contro le onde, contro i muri del pregiudizio.

  2. Il prof. Marco Revelli conclude la sua analisi dicendo: “Questa davvero è stata l’Ultima chiamata.” Insieme a tutto quanto precede l’affermazione non fa una grinza. Passata la sbornia della vittoria inaspettata (?) la nuova segretaria dovrà dedicarsi al Che Fare? e le sue buone intenzioni su cosa e come metterle in pratica dovranno convincere la maggioranza del PD, diversa da coloro che l’hanno eletta Segretaria.

Comments are closed.