Tutti noi lo ricordiamo (tenete a mente questo incipit, ritornerà). Era l’aprile del 2002 e Silvio Berlusconi pronunciò quel che passerà alla storia come l’“editto bulgaro”. Un presidente del Consiglio che non solo si permetteva di rendere pubblica la lista dei giornalisti della televisione di Stato a suo dire ostili (erano Biagi, Santoro, Luttazzi, per la cronaca) ma che riscriveva il codice deontologico e gli obiettivi di quell’azienda: «Io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga».
Perché mi torna in mente questo lontano episodio di cronaca? Probabilmente perché nella distanza plastica dei (poco più di) vent’anni troviamo l’impotenza e la disperazione a cui siamo costretti adesso. Quell’editto bulgaro diede vita a feroci polemiche, a una legittima reazione della società civile intera. Ma poi – nell’ostinazione più retriva – la dirigenza della Rai tenne fede al suo “preciso dovere”, mandando via i giornalisti sgraditi al potere. E da allora a oggi quell’imperativo berlusconiano non solo è diventato il principio di ogni riorganizzazione aziendale, ma è probabilmente l’unico criterio di selezione della classe dirigente che è stato usato dall’attuale Governo nel suo vorticoso giro di nomine. Solo che a opporsi a questa perversa trasformazione del rapporto tra controllante e controllato siamo rimasti in pochi. E forse il punto centrale – per noi, per ciò che toccherebbe fare a noi che siamo semplici spettatori dell’osceno e però ne subiamo le conseguenze in quanto cittadini – è proprio questo. Come chi, abituato alla violenza, quasi non se ne accorge più, così chi per vent’anni ha assistito alla coazione a ripetere del potere che sistema se stesso occupando le poltrone di Stato quasi non se ne accorge più.
Ma andiamo con ordine, provando a rispondere a una domanda: c’è qualcosa di nuovo in questo giro di nomine e nel modus operandi della Meloni? Oppure siamo di fronte all’ennesima ritualità degli ultimi decenni? Io credo che per rispondere a queste domande dobbiamo riconoscere che, osservate con la giusta attenzione, queste nomine sono come un prisma: attraverso di esse si colgono in controluce tutti i caratteri fondamentali del Governo sotto cui ci troviamo a vivere e dello spirito che esso vuole imporre alla nostra epoca.
C’è innanzitutto, nemmeno lontanamente celato ma piuttosto esibito e magnificato, il mito di una rivincita politica e culturale che somiglia assai a un desiderio tracotante di vendetta. Questa pulsione vendicativa giustifica tutto e finisce per scoperchiare il vaso di pandora di una cultura che non sembra volersi rassegnare alle regole elementari della democrazia. Questo sito è uno dei pochi che non teme di mettere in guardia sul fascismo dei post-fascisti. Ma le nomine e il modo in cui il Governo le sta pianificando e portando avanti “senza fare prigionieri” (per citare altri momenti ingloriosi dell’epoca berlusconiana che adesso si stanno realizzando) ci permettono di precisare meglio i caratteri del pericolo. Che non sta tanto – almeno per ora – nella violenza politica diretta ma in quella indiretta. Nella convinzione per cui il Governo è lo Stato e chi è fuori dal Governo deve essere fuori dallo Stato, senza alcuna rappresentanza, alcuna garanzia, alcun diritto di tribuna, di visibilità, di parola, di replica. Ne è una prova un’amena polemica di queste ore, per cui un noto senatore di centro destra (per i casi della vita, il suo nome è passato alla storia per la peggiore legge di riforma del sistema delle telecomunicazioni che mai abbiamo avuto), si permette di definire «eversiva» l’opposizione, per il semplice fatto di opporsi al Governo. Non è questo il punto? Queste nomine così sistematiche, così fedelmente ortodosse, non rappresentano precisamente il tentativo di stringere ancor di più il nodo dell’identificazione tra Governo e Stato? E non è questa violenza indiretta uno dei lapsus attraverso cui il potere dimostra che la propria lingua madre non è quella della democrazia?
In secondo luogo, in queste nomine si manifesta anche il carattere profondamente contemporaneo di questo Governo. Che certamente non è solo nostalgico, ma è anche pienamente aderente alle regole del capitalismo attuale. Non penso alle nomine in Rai, ma a nomine economicamente più stringenti, dove il valore prodotto è direttamente economico. Ecco, la sensazione è che vi sia il tentativo di ergersi a garanti del nuovo ordine economico e, così facendo, di riconfermare fedelmente il rapporto neoliberale tra il governo politico e i grandi poteri capitalistici. Un rapporto di subordinazione al contrario, in cui il Governo, in sfregio a qualunque regola di opportunità ma anche di equità economica, svolge la sua funzione di “poliziotto cattivo”: blinda i posti di potere per poter svolgere il ruolo di garante del capitale e non di controllore.
In terzo luogo non si può non sottolineare quanto queste nomine scoprano un nervo scoperto di questo paese: la crisi della selezione delle classi dirigenti. Sono sufficienti due nomi (ma altri potrebbero farsene): Scaroni e Cattaneo. Questo Governo usa l’ideologia del merito come specchietto delle allodole per lasciare il potere a chi il potere già lo ha e per lasciare nell’impotenza chi già c’è sprofondato. Così mentre tutti sono costretti a competere per sopravvivere, la classe dirigente italiana si mostra per quel che è: un gruppo di amici che sta lì da decenni con logiche avulse dai risultati ottenuti e dalle competenze settoriali che si possiedono. Sta lì secondo una logica tribale: perché solo gli amici possono garantire gli amici. E se i miei “amici” neoliberisti a oltranza mi dicessero di star tranquillo perché il mercato non può permettere questo genere di selezione della classe dirigente, io risponderei semplicemente con l’eloquenza dei fatti. Il mercato non solo tollera ma auspica questo tipo di selezione, perché al mercato interessa che tutto il terreno poroso di confine tra economia e politica sia protetto dall’ingresso dei barbari, di quelli che potrebbero pronunciare parole di uguaglianza o di difesa della società dalla predazione capitalistica. Per questo Scaroni, Cattaneo e compagnia cantando vanno benissimo: perché il loro merito è solo notarile. L’unica impresa in cui non hanno fallito è quella di garantire questo patto di subordinazione della politica all’avidità di chi non vuole certo smettere adesso di usare le imprese pubbliche per arricchirsi privatamente. Così, non è certo un caso che nelle nomine l’unico passaggio possibile è come quello per il prestigio dei notai. Se Gianni De Gennaro è ormai anziano, lo sostituiamo col fratello. Ma vale così per tutti: ormai l’unica via d’accesso per far parte dell’élite è praticare compulsivamente l’obbedienza, salvo poi sdegnarsi quando lo si fa notare. Da questo punto di vista la storia della censura alla fiera di Francoforte nei confronti di Rovelli è forse quella che più di tutte ci permette di chiudere il cerchio. Qual è la condizione per fare cultura oggi? Non di essere liberi, ma di essere obbedienti. Ma una cultura senza libertà di cultura è un non sense, tanto quanto lo è un governo di una democrazia che ritiene che il proprio compito sia quello di occupare gli spazi di potere e non di garantirli. Siamo un paese che ha sostituito l’intelligenza con l’obbedienza e, infatti, siamo diventati così stupidi che pensiamo di potercela ancora cavare.
Ma vengo alla fine. Come opporci a un disegno così invasivo che puntella e peggiora le circostanze degli ultimi decenni? Certo, possiamo sperare che la brama di potere sia così accecante che si eliminino tra loro. Queste nomine non sono gratuite. La protervia politica della Meloni, che davvero da questo punto di vista non sa che cosa sia la separazione dei poteri e vuole tenere tutto per sé, finirà per scontentare ampie parti della sua maggioranza. È una scena già vista ripetutamente e forse possiamo confessarlo: è dalla sera del 25 settembre dell’anno scorso che sotto sotto speriamo che il loro istinto autodistruttivo ci salvi per l’ennesima volta. Però abbiamo anche imparato che ciò che viene dopo è anche peggio. Dunque non credo possiamo più accontentarci di questa consolazione affidata alla tracotanza della destra.
Io credo che la questione sia sempre un’altra. E torno qui all’editto bulgaro. Ho cominciato queste righe scrivendo che “tutti noi lo ricordiamo”. Ecco, non è vero. Quelli che lo ricordano non sono tutti e, a breve, non saranno nemmeno la maggioranza. Se facciamo i conti, possiamo già dire che i trentenni di oggi non hanno idea di cosa sia l’editto bulgaro. Intere generazioni che in questi anni non hanno visto altri modelli di gestione del potere, non hanno provato quel sentimento di vergogna politica che abbiamo provato noi vent’anni fa e che probabilmente proviamo ancora, mescolato a una rassegnazione sempre più prevalente. Hanno visto sempre Scaroni e Cattaneo al potere, questo certamente (del resto, l’anno prima dell’editto bulgaro il fratello di De Gennaro praticava l’eversione a Genova). Ma non hanno mai visto nessuno mettere in discussione che loro debbano essere sempre li, che le poltrone di Stato non sono per forza poltrone del governo, che “l’interesse nazionale” non fa rima con l’interesse esclusivo di alcune grandi famiglie capitalistiche italiane. Non sanno che la democrazia è una cosa seria e non è una cosa scontata. È facile trasgredire le regole di base della democrazia se nessuno più le insegna o le testimonia. Bisogna ricominciare a raccontare cosa è la democrazia e soprattutto cosa non è. Sta a noi questo compito: contagiare un po’ di vergogna e non solo un po’ di rassegnazione. Certo, nei prossimi anni dovremo fare a meno della Rai. Quella che un tempo era “la più grande industria culturale del paese” e che adesso si affida a rabdomanti, venditori di fumo, prestigiatori e barbareschi. Ce ne faremo una ragione, mi sa. Il futuro non passa da lì. E questa è una gran bella notizia.