Pane

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Un’altra volta torno a casa e sono pieno di passi, senza vittoria. Meglio dire “fortuna”. Questo è il lavoro, per chi come me, fin da piccolo, ha avuto le mani per lavorare e la testa piena di sogni da costruire. Con la terra, con ago e filo, con mia moglie. Ho incrociato il suo sguardo in una sera che sapeva di sale e musica. Prima sognavo di scappare con un pallone ai piedi: lei è stata radici, desiderio di restare. «A mano a mano ti tengo vicino… può nascere un fiore nel nostro giardino» canta questa radio mentre sono attraversato dal colore dei suoi pantaloncini, un colore troppo sgargiante per dimenticare, lei con me per mano a chiudere sorrisi e pianti negli abbracci. Non ci sono bastati i nostri e li abbiamo moltiplicati: ho sempre visto me stesso come un padre all’opposto del mio, troppo stanco e annoiato per essere un primo eroe delle favole.

Coi miei figli parlo molto, io e mia moglie siamo radici e i miei figli la chioma che fiorisce, come un albero stiamo piantati a terra perché loro hanno il sole da scoprire. Da quando mi sono chiuso alle spalle la porta del mio ultimo ufficio, colorato come dicevo, col mio profumo dentro, le penne che io avevo scelto, mi sono trovato a bussare a tante porte. Colori: non tra quelli che preferisco. Arredi: banali, non fanno sentire a casa. Le penne: strano a dirsi non funzionano mai. Dentro non c’era il mio profumo; ma i miei figli chioma del mio albero, devono toccare il caldo di quel sole, perciò sono entrato.

Dice una cosa buffa mia figlia «papi ti devi togliere la dipendenza dalla speranza: esci da questo circolo vizioso!» ridiamo quando lo dice. Di nuovo oggi su di un’altra soglia, ci sto a pensare. Troppe volte pieno di sì ho camminato, mangiato asfalto, gelido al freddo e cocente al caldo, ho scritto, aggiustato, salito, per poi trovarmi a ridiscendere gradini sempre più ripidi e senza corrimano. Perché questa volta ci sono i libri da comprare e «papà perché io in gita non ci posso andare?». I pantaloncini colorati di mia moglie si sono ingrigiti, ma nelle giornate più felici resta il ricordo del colore e stiamo ballando tra luci e salsedine, in una sera eterna d’estate. Non la perdo in quei giorni. Altre volte l’ho perduta, mi è scivolata dalle mani e dal cuore perché ci siamo ritrovati immersi, impantanati in maglie vecchie e scarpe bucate, in desideri infranti, dentro a tasche vuote. Allora dentro casa sono stato il papà dei “no”: niente scarpe nuove questo mese, un uovo di Pasqua basterà da dividere tra noi, il rinfresco per la festa lo facciamo a casa che preparo io. Nei periodi più tristi, quelli senza sonno perché nessuna porta si era aperta per me, con le mani ho mischiato rabbia, farina e acqua per il pane: mi pare così che qualcosa sulla tavola la posso portare.

Troppo vecchio per imparare un altro mestiere non sono un buon investimento, ramo secco da tagliare, però io ve lo potrei dire: non è così che si deve colorare questo ufficio, non è così che si devono tenere i mobili, è così che si deve trattare con le persone. Ho pianto perché nessuno mi ha voluto ascoltare, non mi viene bene neanche fare il pane, se mi lasciate così: con mio figlio che è malato e sa gridare forte se ci si mette e io vorrei dargli più di questo pane e ha ragione lui che a volte si alza ed è già arrabbiato, ha ragione lui che sa combattere e ve lo farei vedere che significa stare in piedi su questo ring dove la campanella non suona mai. Non gridare oggi che non ti voglio ascoltare. Ho troppo silenzio che mi fa rumore nella testa e nemmeno mi voglio alzare.

Ho sentito di Michele, di Emanuele, e degli altri 998 che fino a marzo, hanno smesso di camminare, salire, scendere e sperare troppo era il dolore di non portare pane. Mi fanno paura perché li sento vicini, a volte tanto da sussurrare. Non mi piace dire che si sono arresi; che troppo comodo così “calcio al secchio” e chi rimane? Non mi piace che si pensi a loro con compatimento. Piuttosto che si dica che chi era sulla porta e non ha aperto si deve vergognare, perché prima della vita, toglie la dignità. Chi tiene fuori quelli come me troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per la pensione: è lui che perde un’occasione! Ma oggi è domenica e c’è il sole e il petto è più leggero di ieri: mio figlio piccolo ha la partita di pallone e io lo vado a vedere. E miei cari signori quando sono su questi spalti a tifare: sto giocando, sono ancora quel bambino che col pallone ai piedi può scappare.

Dal campo mio figlio ha fatto gol. Mi guarda. Fa segno cinque con la mano, una cosa nostra, sono riparato da quel gesto e mio figlio che fa gol e cerca il mio sguardo quello non me lo potete togliere mai. Così vinco qualcosa e lo porto a casa.

L’articolo è tratto da Rivista inCivile, giugno 2019

Gli autori

Manuela Adduci

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