Negli ultimi decenni si sono verificati in Europa importanti cambiamenti socio-economici, dovuti principalmente alla globalizzazione dell’economia e al rapido cambiamento dei mercati di consumo. Ciò ha prodotto nel nostro paese una forte riduzione del settore manifatturiero e un’espansione del settore dei servizi, e un’aumentata richiesta di flessibilità nell’organizzazione delle imprese, con conseguente aumento di outsourcing, privatizzazioni, fusioni e acquisizioni.
Le conseguenze di tali cambiamenti sono state principalmente la riduzione del personale attraverso licenziamenti e l’aumento dell’utilizzo di lavoratori temporanei o in subappalto, che ha causato un aumento dell’insicurezza lavorativa tra i lavoratori sopravvissuti ai tagli, un peggioramento delle condizioni di lavoro, in termini di aumento del numero di attività da svolgere e dei ritmi di lavoro, un aumento della proporzione di lavoratori adibiti a turnazione (soprattutto per l’estensione degli orari nel settore terziario) e, infine, un aggravamento dei problemi di conciliazione tra l’attività lavorativa e la vita sociale e familiare al di fuori del lavoro.
L’esposizione a questi fattori occupazionali è stata trovata avere un effetto soprattutto sulla salute mentale, ma la multifattorialità delle patologie psichiche, l’ampia variabilità delle procedure diagnostiche e le difficoltà nella misurazione dell’esposizione a questi fattori di rischio limitano le possibilità di identificare quelle di origine occupazionale.
In questo articolo verranno riassunte le conoscenze sulla diffusione dell’esposizione a questi fattori di rischio emergenti nella popolazione occupata e le principali evidenze sui loro effetti sulla salute dei lavoratori.
INSICUREZZA LAVORATIVA
Secondo dati della Labour Force Survey, dal 1990 al 2007 i lavoratori assunti con contratti di lavoro temporanei in Europa sono aumentati di oltre il 25%, passando dall’11.5% al 14.5% del totale (Eurostat, 2010). La crisi che ha colpito l’Europa nell’ultimo quinquennio ha accelerato questo processo, provocando un incremento dell’esposizione ad insicurezza lavorativa tra i lavoratori della maggior parte dei paesi europei: i lavoratori dell’Unione Europea a 27 paesi che riferiscono come probabile il poter perdere il proprio posto nei successivi 6 mesi sono passati dall’8.7% nel 2007 al 13.2% nel 2012) (Eurofound, 2013).
Nella letteratura epidemiologica sulla precarietà, solo dalla metà degli anni ‘70 l’insicurezza lavorativa (in inglese: job insecurity) comincia ad essere considerata un fattore stressogeno, con possibili effetti sulla salute. Una delle prime definizioni coniate per l’insicurezza lavorativa è quella di “impotenza percepita di mantenere una continuità desiderata in una situazione lavorativa minacciata di interrompersi” (Greenhalgh & Rosenblatt, 1984), i cui elementi caratterizzanti sarebbero quindi: la percezione del lavoratore di una minaccia alla continuazione del lavoro, l’importanza per il lavoratore di mantenere il proprio lavoro, la sensazione di impotenza nel contrastare la minaccia della perdita del lavoro e l’incertezza relativa alla possibilità di perdere il lavoro.
Diverse categorie di lavoratori sono maggiormente esposte a insicurezza lavorativa, tra cui soprattutto soggetti con un basso livello socioeconomico, donne, immigrati, minoranze etniche, lavoratori temporanei (Landsbergis et al., 2014).
Insicurezza lavorativa, lavoro temporaneo e lavoro precario sono caratteristiche del lavoro che in parte si sovrappongono. In particolare, il lavoro temporaneo è un indicatore surrogato, ma oggettivo, di insicurezza lavorativa, che è tuttavia considerato troppo poco specifico per l’identificazione di soggetti affetti da insicurezza lavorativa, dato che non tutti i lavoratori con contratti temporanei sono esposti ad alta insicurezza. Per esempio, nell’ultima European Working Condition Survey, condotta nel 2010 dalla Fondazione di Dublino per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound, 2012), meno della metà dei soggetti (41%) con contratto temporaneo affermava di poter perdere il proprio posto di lavoro nei prossimi sei mesi e questa proporzione scendeva al 29% per i lavoratori con contratto di lavoro permanente; ciò si rifletteva sulle differenze osservate nella salute mentale, che erano decisamente maggiori tra lavoratori che riportavano o non riportavano di essere esposti a insicurezza lavorativa, rispetto alle differenze tra lavoratori temporanei e permanenti (Figura 1). Il costrutto di lavoro precario ha invece una dimensione più ampia, che considera anche altre caratteristiche avverse del lavoro, come bassa durata del contratto di lavoro, impossibilità di decidere sulle condizioni di lavoro, vulnerabilità ad abusi e maltrattamenti, bassi salari, scarsi diritti legali e impossibilità dei lavoratori di esercitare i propri diritti (Vives et al., 2010).
I lavoratori esposti ad insicurezza lavorativa sono stati trovati in vari studi a maggior rischio di riferire un peggiore stato di salute mentale, utilizzando questionari per la rilevazione dello stato di salute generale percepito (Swaen et al., 2004; Lau & Knardahl, 2008), ma di specifiche patologie mentali, tra cui ansia (D’Souza et al., 2003; Boya et al., 2008; Edimansyah et al., 2008), depressione (D’Souza et al., 2003; Burgard et al., 2009; Boya et al., 2008; Edimansyah et al., 2008; Andrea et al., 2009; Rugulies et al., 2006) e burnout (Norlund et al., 2010), con rischi relativi di 2-3 volte tra gli esposti rispetto ai non esposti.
Le principali revisioni della letteratura sull’insicurezza lavorativa concordano nell’affermare che essa è associata in maniera abbastanza consistente con un minore livello di benessere mentale e un aumento del rischio di ansia, depressione e burnout (De Witte, 1999; Quinlan et al., 2001; Sverke et al., 2002; Kim et al., 2012). L’associazione con la salute mentale è stata infatti riscontrata anche in studi longitudinali nei quali i soggetti affetti dalla patologia di interesse all’inizio dello studio erano stati esclusi, oppure in studi che avevano controllato per lo stato di salute dei lavoratori all’inizio dello studio (Andrea et al., 2009; Hellgren et al., 1999), caratteristiche metodologiche che rendono improbabile una distorsione delle stime di rischio causate da bias di selezione o di misclassificazione differenziale dell’esposizione. Inoltre, l’associazione è stata osservata anche in studi che avevano controllato per potenziali confondenti sul lavoro, come basso controllo sul lavoro e scarso supporto di supervisori, e in studi longitudinali su aziende colpite da ristrutturazione (downsizing), che avevano quindi esaminato l’effetto sulla salute del passaggio da una situazione di sicurezza ad una di insicurezza lavorativa (Swaen et al., 2004; Kivimäki et al., 2000; Ferrie et al., 2002). Diversi sottogruppi di lavoratori sarebbero maggiormente suscettibili agli effetti sulla salute dell’insicurezza lavorativa, tra cui soprattutto le donne (Kim et al., 2012), i lavoratori anziani (Vahtera et al., 1997; Cheng et al., 2013) e i lavoratori manuali o impiegati in occupazioni a basso status (Sverke et al., 2002; Kim et al., 2012), verosimilmente perché le loro opportunità di trovare un altro lavoro in caso di licenziamento sono inferiori.
La tipologia di welfare sarebbe un altro importante moderatore degli effetti dell’insicurezza lavorativa sulla salute, come dimostrato dalla revisione di Kim et al. (2012), che ha trovato associazioni tra insicurezza lavorativa e salute mentale modeste o assenti nei paesi scandinavi, caratterizzati da alta protezione sociale (regime di welfare social-democratico), ma presenti in tutti gli altri tipi di paesi caratterizzati da altri sistemi di welfare (regimi bismarckiano, anglo-sassone, sud-europeo).
ORARI DI LAVORO
Sia i lunghi orari di lavoro, sia il lavoro a turni, soprattutto quelli che comprendono la notte, aumenterebbero la probabilità di sviluppare vari esiti di salute, tra cui disturbi del sonno, malattie cardiovascolari e mentali, diabete, disturbi gastrointestinali e muscoloscheletrici, infortuni e disabilità.
Per il lavoro a turni sono stati anche riportati eccessi di tumori della mammella tra le donne.
È necessario evidenziare che i risultati degli studi sugli addetti ai turni o su lavoratori esposti a lunghi orari sono potenzialmente affetti da un’importante bias di selezione che tenderebbe a sottostimare l’associazione con la salute, i.e. il “healthy shift worker survival effect”, dovuto al fatto che i lavoratori affetti da problemi di tipo fisico o mentale tendono, se possono, a passare al lavoro diurno o a orari più ridotti; quindi, gli studi trasversali, o che non sono in grado di controllare accuratamente quelli per lo stato di salute dei lavoratori all’inizio del periodo di osservazione, sono probabilmente affetti da un’attenuazione del rischio di effetti sulla salute.
Lunghi orari di lavoro
I lunghi orari di lavoro sono definiti come il lavorare per un tempo superiore all’orario di lavoro standard, che tuttavia è variabile da Paese a Paese. Nei Paesi occidentali è generalmente considerato di 40 ore/settimana, ma in molti Paesi extra-europei, soprattutto asiatici, le ore di lavoro settimanali sono normalmente superiori a 40 e spesso in un range di 50-60.
La direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC) pone a 48 ore/settimana il limite massimo, che non dovrebbe essere superato neanche considerando il lavoro straordinario. Tuttavia, secondo i dati dell’ultima indagine Europea sulle condizioni di lavoro il 23% degli uomini e il 10% delle donne riferiva di lavorare più di 48/settimana, percentuali che si riducevano al 13% tra gli uomini e al 6% tra le donne italiane (elaborazione personale dei dati Eurofound, 2010).
In letteratura, gli studi che hanno valutato gli effetti sulla salute degli orari di lavoro prolungati hanno riportato tra gli esposti eccessi di malattie cardiovascolari, disturbi mentali, peggiore salute fisica percepita, affaticamento, diabete, disturbi gastrointestinali, infortuni e pensionamento per disabilità (Spurgeon et al., 1997; Caruso et al., 2006; Van der Hulst, 2003).
Per quanto concerne i disturbi mentali, un incremento del rischio di sviluppare ansia o depressione negli esposti a lunghi orari o a lavoro straordinario è stato osservato in diversi studi longitudinali (Shields, 1999; Virtanen et al., 2001, 2012; Amagasa & Nakayama, 2012), ma l’associazione è considerata ancora controversa, come suggerisce il fatto che le due revisioni più recenti sull’argomento siano giunte a conclusioni opposte (Fuijno et al., 2006; Bannai & Tamakoshi, 2014). Secondo il modello concettuale proposto dal NIOSH, i lunghi orari di lavoro da un lato ridurrebbero il tempo a disposizione, o la capacità dei lavoratori di utilizzarlo, per dormire, riposarsi o svolgere attività familiari o di svago, dall’altra esporrebbero i lavoratori a carichi di lavoro eccessivi, riducendo ulteriormente le loro possibilità di recupero psico-fisico; ciò aumenterebbe la probabilità di non dormire un numero di ore sufficienti e di sviluppare disturbi del sonno, affaticamento, depressione dell’umore, disturbi fisici, dolore, alterazioni funzionali neurologiche, cognitive e fisiologiche (Caruso et al., 2006).
Lavoro a turni
Nelle società occidentali si è assistito a un incremento della diffusione del lavoro a turni, che ormai riguarda circa il 20% della popolazione occupata (Kantermann et al. 2010). I sistemi di turnazione variano in modo considerevole tra loro in termini di durata del turno, di quantità di lavoro notturno, di lavoro nel fine settimana, di orari di inizio e fine dei turni e durata dei ciclo di turnazione. In particolare, i turni notturni e quelli a rotazione sono quelli che potenzialmente interferiscono di più con i ritmi circadiani degli individui e la loro vita sociale e familiare.
Nonostante le prime revisioni sull’argomento indicassero una certa inconsistenza dell’associazione tra lavoro a turni e disturbi mentali (Rutenfranz et al., 1977; Harrington, 1994), alcune più recenti suggeriscono la presenza di un incremento del rischio di sviluppare problemi psichici, che, come nel caso dei lunghi orari di lavoro, appare mediato da affaticamento, carenza di periodi di recupero e problemi di conciliazione con la vita familiare/sociale (Tucker & Knowles, 2008; Sancini et al., 2012). Tra gli studi longitudinali condotti negli ultimi anni, diversi hanno riscontrato un aumento del rischio di ansia, depressione o bassi punteggi di salute mentale nei lavoratori a turni (Scott et al., 1997; Kaneko et al., 2004; Arimura et al., 2010; Selvi et al., 2010). In particolare, uno studio britannico ha osservato un alto rischio di ansia/depressione sia negli uomini (RR=6.08) che nelle donne (RR=2.58) per aver fatto il turno di notte per almeno 4 anni (Bara & Arber, 2009). A supporto del fatto che la relazione tra lavoro notturno e disturbi mentali sia di tipo causale, uno studio prospettivo su un gruppo di infermiere norvegesi ha trovato che quelle che erano passate dal turno notturno a quello diurno tra l’inizio dello studio e 2 anni dopo mostravano una riduzione dei sintomi di ansia e depressione (Thun et al., 2014).
È stato tuttavia suggerito che l’effetto sulla salute sia dovuto a vincoli imposti sull’orario piuttosto che dal lavoro a turni, come evidenziato da uno studio che ha trovato un effetto, ma solo tra soggetti con scarsa influenza sulle ore lavorate (Nabe-Nielsen et al., 2010). Una revisione Cochrane sull’efficacia di interventi preventivi ha effettivamente concluso che la partecipazione alla programmazione dei turni migliora la salute mentale (Joyce et al., 2010).
ELEVATE RICHIESTE DI LAVORO
Questa dimensione comprende l’esposizione sia ad alti ritmi di lavoro che a carichi di lavoro eccessivi fisici e mentali, quindi è una dimensione anche piuttosto correlata con l’esposizione a fattori ergonomici, come il lavoro fisico intenso o i movimenti ripetuti. In Italia, circa il 25% dei lavoratori di entrambi i generi riferivano di essere esposti ad alti ritmi di lavoro o a carico di lavoro eccessivo nell’ultima indagine speciale delle Forze di Lavoro ISTAT (2013), con un’ampia variabilità per settore produttivo (dal 21.6% in edilizia al 33.6% nel settore assicurativo e finanziario). Anche se la domanda non era perfettamente sovrapponibile a quella presente nel questionario della stessa indagine svolta nel 2007, la percentuale di lavoratori esposti a carico di lavoro eccessivo appare aumentata rispetto al 2007 (maschi: 15.5%, donne: 13.8%).
L’associazione con la salute mentale di questo fattore di rischio è stata frequentemente esaminata insieme a quella del job control o del job reward nell’ambito dei modelli demand-control (Karasek, 1985) e effort-reward imbalance (Siegrist, 1996), per cui è difficile isolare in letteratura il suo effetto sulla salute mentale al netto di quello delle co-esposizioni psicosociali dei due modelli.
Diversi studi hanno riscontrato un eccesso di rischio sia di disturbi psicologici comuni, con rischi relativi in un range 1.3-3.5, sia di depressione, con rischi di 1.5-2 volte superiori, per l’esposizione combinata a basso controllo e richieste elevate, definita come job strain dal modello teorico demand-control (Braun & Hollander, 1988; Bourbonnais et al., 1998; Niedhammer et al., 1998; Stansfeld et al., 1999; Mausner-Dorsch & Eaton, 2000; de Lange et al., 2003). Comunque, secondo una revisione di 11 studi longitudinali di migliore qualità metodologica, le elevate richieste da sole incrementerebbero il rischio di sviluppare disturbi psicologici comuni, con un significativo eccesso di rischio stimato attorno al 40% (Stansfeld & Candy, 2006). Anche la depressione è stata trovata associata nella maggior parte degli studi longitudinali all’esposizione ad elevate richieste, con incrementi di rischio tra gli esposti di circa il 30-50%, che sono risultati più elevati e più consistenti tra i generi rispetto a quelli osservati per basso controllo e job strain (Paterniti et al. 2002; Wang 2004; Shields 2006; Virtanen et al., 2007; De Santo Iennaco et al., 2009; Theorell et al., 2014; Endo et al., 2015). Inoltre, due revisioni degli studi longitudinali su esposizione a fattori psicosociali e depressione indicavano che l’associazione era più forte e consistente con l’esposizione a richieste elevate rispetto che a basso controllo (Bonde 2008; Netterstrom et al. 2008).
CONCILIAZIONE CASA-LAVORO
È stato stimato che il 40% dei genitori occupati sperimentano problemi di conciliazione casa-lavoro in qualche momento della loro vita (Galinsky et al. 1993). Nell’indagine Eurofound (2010), il 22% dei lavoratori europei occupati full-time (25% tra gli uomini e 20% tra le donne) riferiva problemi di conciliazione casa-lavoro, con un’ampia variabilità tra paesi e con le maggiori proporzioni di esposti osservate nei paesi del Sud Europa (in Italia, 26% tra gli uomini e 20% tra le donne). Uno studio che cercato di identificare le cause di questa variabilità tra paesi europei ha concluso che gran parte sarebbe spiegata da differenze nel numero di ore lavorate/settimana, nei regolamenti sulle ore di lavoro (flessibilità di orario e possibilità di part-time) e nelle tipologie di welfare (indicatore di disponibilità di servizi per l’infanzia, estesi congedi parentali pagati, supporto sociale a genitori single, etc.) (Lunau et al., 2014).
Dalle meta-analisi di Byron (2005) e di Michel et al. (2011), i maggiori determinanti occupazionali dei conflitti casa-lavoro sarebbero gli alti carichi di lavoro, l’orario prolungato, la presenza di conflitto di ruoli sul lavoro, lo scarso supporto sociale sul lavoro da parte di colleghi e supervisori, la bassa varietà dei compiti e autonomia, insieme al coinvolgimento e centralità del lavoro individuale.
A loro volta, i problemi di conciliazione casa-lavoro sono stati trovati in molti studi associati ad un maggior rischio di disturbi mentali, come ansia, depressione e burnout (Frone, 2000; Netemeyer et al, 1996; Leineweber et al., 2012; Hammer et al., 2005), con incrementi del rischio di circa 2-3 volte. Frone et al. (1992) sono stati i primi a teorizzare che i conflitti casa-lavoro fossero un fattore di mediazione tra esposizioni occupazionali, in particolare eccessivi carichi e lunghi orari di lavoro, ed esiti di salute. A supporto di questa teoria, i conflitti lavoro-casa sono stati trovati in un recente studio mediare in parte l’effetto dello stress occupazionale (definito come Effort-Reward Imbalance) sui disturbi mentali (45.5% tra le donne e 23.2% tra gli uomini occupati full-time) (du Prel & Peter, 2015).
Un’altra forma di problemi di conciliazione casa-lavoro è stata concettualizzata come “doppio carico di lavoro”, cioè la combinazione di lavoro retribuito e lavoro domestico e di cura dei figli.
Secondo la «Role Combination Strain Hypothesis» il rivestire più ruoli (in special modo quelli di lavoratore/lavoratrice e di padre/madre) determinerebbe carichi troppo onerosi in termini stress, tempo ed energie, tali da compromettere il proprio stato di salute psicofisica (McLanahan e Adams 1987; Ross et al. 1990). Tale doppia esposizione riguarderebbe soprattutto le donne: dall’indagine dell’ISTAT sull’uso del tempo (anni 2002-2003) risultava che il tempo di cura dei figli è completamente svolto dalla donna nel 41% delle coppie intervistate (Mencarini 2012). Alcuni studi europei hanno effettivamente mostrato che le donne che combinano lavoro retribuito e cura dei figli riportano più sintomi fisici e psicologici di donne occupate senza figli (Krantz et al., 2001, 2005; Vaananen et al., 2004).
Frazioni di malattia attribuibili all’esposizione a fattori di rischio emergenti e casi attesi in Italia
Sulla base della proporzione di esposti ai fattori di rischio considerati nella popolazione occupata e dei rischi relativi stimati da meta-analisi dei risultati della letteratura o di quelli degli studi primari di tipo longitudinale, è possibile stimare le frazioni di disturbi mentali attribuibili all’esposizione occupazionale a questi fattori. In questo esercizio sono stati presi in considerazione solo i fattori di rischio la cui associazione con i disturbi mentali è considerata consolidata, quindi i lunghi orari di lavoro e il lavoro a turni non sono stati inclusi. Le frazioni attribuibili a elevati carichi di lavoro e a conciliazione casa-lavoro sono state calcolate secondo la formula di Levin (1953), mentre per l’ insicurezza lavorativa la frazione attribuibile è stata tratta dallo studio di Niedhammer et al. (2014), che l’ha stimata sui dati di prevalenza dell’esposizione e del rischio di disturbi mentali osservati nell’indagine europea Eurofound (2010).
Tabella 1. Frazioni e numero di casi affetti da disturbi mentali in Italia attribuibili ai fattori di rischio esaminati nella popolazione occupata, per genere (elaborazione personale dati INAIL)
fattore di rischio |
frazione attribuibile – M |
casi prevalenti attribuibili in Italia – M |
frazione attribuibile – F |
casi prevalenti attribuibili in Italia – F |
insicurezza lavorativa |
2.9% |
4.953 |
2.9% |
8.556 |
elevate richieste di lavoro |
8.9% |
15.045 |
8.9% |
25.988 |
conciliazione casa-lavoro |
12.1% |
20.454 |
9.8% |
28.616 |
Le frazioni attribuibili risultano attorno al 9-10% per elevate richieste di lavoro e per problemi di conciliazione casa lavoro e di circa il 3% per l’insicurezza lavorativa. Applicando queste frazioni attribuibili alle prevalenze di disturbi mentali (ansia cronica e depressione) riportate nell’indagine multiscopo sulla salute ISTAT nella popolazione italiana occupata del 2013, sono stati stimati i casi attesi per queste patologie dovuti all’esposizione ai fattori emergenti considerati, limitatamente alle patologie e ai fattori di rischio per i quali l’associazione è più solida, i cui risultati sono presentati in Tabella 1. Ne risulta che circa 40.000 casi prevalenti di disturbi mentali in Italia sarebbero dovuti all’esposizione a questi fattori tra gli uomini e oltre 60.000 tra le donne. A parte l’insicurezza lavorativa, gli altri sono fattori di rischio connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, le cui patologie associate dovrebbero in teoria essere denunciate dai lavoratori e riconosciute dall’INAIL. Questi numeri di casi attesi sono probabilmente delle sovrastime, dato che da una parte i fattori di rischio esaminati in parte si sovrappongono, dall’altra verosimilmente anche le più affidabili stime di rischio derivate dalla letteratura soffrono di incompleto aggiustamento per differenze in co-esposizioni occupazionali correlate con questi fattori. Tuttavia, il numero di casi attesi affetti da disturbi mentali in Italia è assolutamente sproporzionato al numero delle patologie denunciate e riconosciute dall’INAIL. Infatti, le malattie psichiche denunciate all’INAIL come professionali nel periodo 2008-2013 sono state circa 800, di cui peraltro solo 171 sono state riconosciute (Tabella 2). Appare importante sottolineare a questo riguardo che nonostante lo stress lavoro-correlato sia considerato uno dei più rilevanti problemi per la salute occupazionale dalle principali agenzie nazionali e internazionali di igiene e sicurezza sul lavoro, solo una minima parte dei disturbi psichici causati dal lavoro vengono denunciati e riconosciuti come malattie professionali in Italia.
Tabella 2. Malattie professionali psichiche da stress denunciate e riconosciute da INAIL nel periodo 2008-2013, per anno e tipo di definizione
Ottobre 2018
Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3 – Regione Piemonte