1.
L’emergenza sanitaria che stiamo affrontando ha inciso in maniera immediata su alcune delle nostre libertà più care: quelle di muoverci, di lavorare, di riunirci o di praticare la fede religiosa. Restrizioni, dunque, che hanno riguardato diritti fondamentali normalmente esercitati, e quindi colte con maggiore intensità.
Diverso impatto ha avuto, nella percezione comune, la decisione di sospendere, salvo eccezioni, l’attività giurisdizionale dei tribunali. Già, perché l’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 17 marzo scorso, poi più volte modificato e corretto, ha disposto la generalizzata sospensione dei procedimenti penali e civili fino all’11 maggio, prevedendo soltanto poche deroghe legate a situazioni di particolare urgenza, come quelle dei provvedimenti a tutela dei minori e di convalida degli arresti di polizia (attività quest’ultima che, privando taluno della libertà personale, necessita del controllo del giudice da effettuarsi entro 96 ore, secondo quanto stabilito dall’articolo 13 della Costituzione). Ciò ha colpito i cittadini non direttamente interessati da processi in maniera minore dalle altre misure restrittive ma ha trasmesso il messaggio che l’ordinario esercizio della giustizia non rientra tra quelle attività essenziali per le quali è prevista la continuazione, seppur con particolari cautele. L’attività giudiziaria non gode di buona fama nel nostro paese, soprattutto per i suoi tempi, ma trasmettere il messaggio che tenere aperti tribunali è meno essenziale che tenere aperte le tabaccherie non contribuisce certo a restituire la fiducia nella funzione giudiziaria.
Ovviamente l’apertura dei tribunali in tempo di emergenza sanitaria avrebbe comportato la necessità di cautele idonee ad evitare il diffondersi del contagio: disponibilità dei necessari presidi sanitari, protocolli per limitare gli accessi agli uffici e regolamentare il distanziamento tra le persone, risorse e modalità operative per lo svolgimento a distanza di determinate attività, criteri per le priorità di trattazione dei processi etc. Una strada impervia, certo, e tuttavia praticabile. Così non è stato e il Governo ha scelto di prevedere solo la celebrazione in via eccezionale delle attività indifferibili. Ma anche questa scelta è stata caratterizzata da difficoltà di vario genere.
Una prima difficoltà è derivata proprio dalla necessità per gli operatori di confrontarsi con un testo normativo in alcune parti di oscura interpretazione, continuamente modificato prima ancora di essere adeguatamente studiato e applicato. Basta pensare che dal primo testo normativo ad oggi si sono succedute, in meno di due mesi, ben quattro modifiche. Certo, nell’emergenza non è possibile prevedere una particolare stabilità normativa, ma si può ben richiedere almeno la chiarezza dei parametri generali insieme all’elasticità degli specifici strumenti operativi!
Una seconda difficoltà è derivata dall’utilizzo delle tecnologie previsto per lo svolgimento delle attività non sospese, in particolare i collegamenti telematici per celebrare le udienze anche da remoto o per trasmettere o depositare documenti e atti processuali. Se da un lato l’emergenza ha permesso di sperimentare e utilizzare tali strumenti di assoluta utilità per alcune funzioni (si pensi alla possibilità di disporre di un atto in forma digitale, anziché cartacea, per tutti i successivi utilizzi) dall’altro ha posto in luce la drammatica arretratezza di alcuni settori, in particolare quello penale. Si è, infatti, solo agli albori della digitalizzazione degli atti, a causa della mancanza di protocolli, del mancato addestramento del personale, della scarsa disponibilità della strumentazione, dell’uso di software e sistemi operativi non particolarmente efficaci.
Infine una terza criticità si è palesata nel cambio di paradigma introdotto dalla normativa specifica. È stato infatti previsto che nella fase emergenziale i processi non sospesi si possano svolgere mediante collegamento telematico da remoto. Ciò significa, ad esempio, che nell’udienza di convalida l’arrestato o il fermato non viene portato, come normalmente accade, “davanti al giudice”, ma è ascoltato mentre si trova in camera di sicurezza, cioè nell’edificio dell’autorità di pubblica sicurezza che ha proceduto all’arresto o al fermo. Anche il suo difensore partecipa all’udienza da remoto, collegandosi telematicamente con il giudice e con il suo assistito. La possibilità più in generale, di celebrare l’intero processo a distanza è stata prevista originariamente per tutti i procedimenti non sospesi, fino all’11 maggio, e successivamente per tutti i processi, fino al 30 giugno. Soltanto con l’ultimo decreto legge (n. 18/2020) si è deciso di escludere questa possibilità per le udienze dove si devono assumere prove o procedere alla discussione finale.
2.
La possibilità di svolgere dei processi in via telematica da remoto è stata la novità più rilevante e ha suscitato molti entusiasmi anche nella magistratura. In un contesto nel quale l’innovazione tecnologica è sempre stata predicata ma mai perseguita efficacemente, l’improvvisa scoperta che la tecnologia permette di svolgere alcune funzioni senza la necessità della presenza fisica del giudice è stata salutata come una benefica innovazione, in grado di favorire la velocizzazione dei processi. Sullo sfondo di tale entusiasmo si è intravista la proposta, da parte di alcuni, di rendere definitiva la normativa emergenziale, consentendo anche dopo la sua cessazione la possibilità di svolgere normalmente l’udienza con le modalità sopra descritte.
Una simile prospettiva sconta un’ingenuità e un errore di prospettiva.
L’ingenuità consiste nel ritenere che nell’attuale situazione di arretratezza tecnologica degli uffici giudiziari le innovazioni proposte consentano veramente una velocizzazione dei processi. A fronte della carenza di materiale hardware, della mancata formazione del personale (compresi i magistrati) all’uso degli strumenti e delle necessarie verifiche in ordine alla sicurezza e all’affidabilità dei collegamenti, l’adozione della tecnologia per celebrare parte dei processi da remoto potrebbe, in concreto, tradursi addirittura in una maggiore farraginosità del sistema.
Ma ancora più grave è l’errore di prospettiva.
Ritenere che nel processo penale il valore primario sia quello di raggiungere più celermente possibile la decisione finale significa non rendersi conto del valore che hanno le modalità del processo per garantire che quella decisione sia la più giusta possibile. Assumere la prova nel pieno contraddittorio, davanti all’avvocato difensore e al pubblico ministero che interrogano i testimoni non è soltanto la garanzia dei diritti difensivi dell’imputato, ma anche il metodo migliore per giungere a una approfondita conoscenza dei fatti. Prevedere che questo momento, vitale per arrivare a una corretta decisione, possa svolgersi lontano dalla presenza fisica di chi deve raccogliere la prova, significa depotenziarlo pericolosamente.
Ci sono, poi, situazioni specifiche ancora più evidenti. Si prenda il caso della convalida dell’arresto: il giudice deve valutare la correttezza dell’operato della polizia giudiziaria: sulla scorta del resoconto di quest’ultima, ma anche delle dichiarazioni rese dallo stesso arrestato. È, dunque, un valore imprescindibile che quest’ultimo sia posto davanti al “suo” giudice, e possa riferire la sua versione senza condizionamenti di alcun tipo. Il fatto che egli, al contrario, parli con il giudice da uno schermo, in un luogo distante, avendo magari a fianco la stessa persona che ha proceduto al suo arresto, non offre le necessarie garanzie di una versione non condizionata da timore o pressioni. Non è una preoccupazione eccessiva: nella nostra storia non sono stati rari i casi in cui nemmeno la presenza fisica degli arrestati davanti al giudice ha consentito l’emergere di illegalità intervenute nel corso o in prossimità dell’arresto ed è facile immaginare la moltiplicazione di tali casi laddove non fosse pienamente garantita la possibilità di una pronta denuncia di comportamenti illegittimi, senza timore di ritorsioni.
Infine, la possibilità di svolgere le udienze da remoto evoca la prospettiva di processi smaterializzati, privi di un luogo fisico di celebrazione, con i protagonisti che si collegano tra loro soltanto in via telematica. Una simile prospettiva non considera che il processo non è soltanto una funzione per raggiungere un risultato, affidata ai suoi protagonisti occasionali. Il processo ha un valore essenziale per la tenuta della convivenza solidale, in quanto è il luogo di ricomposizione dei conflitti e della risposta della collettività ai medesimi, in funzione del recupero della coesione sociale messa in pericolo dalla violazione di una norma. Il luogo fisico dove si tiene il processo non appartiene solo a chi lo pratica, ma a tutti i cittadini che possono riconoscersi in esso, e sentirsi per questo parte di una comunità democratica. La celebrazione del processo nelle forme rituali, visibili e percepibili da una comunità non virtuale ma reale, è essenziale non soltanto per le garanzie che il processo deve offrire all’imputato, ma anche perché quel rito laico è quello che legittima il terribile mistero, come scriveva Salvatore Satta, per cui un uomo può giudicare un altro uomo. Il sentirsi parte di una comunità democratica è garantito anche dalla possibilità di entrare fisicamente in un’aula di giustizia e leggere la scritta appesa alle spalle di un giudice in carne e ossa: la legge è uguale per tutti.