REGIA: Leigh Whannell
CAST: Elisabeth Moss, Oliver Jackson-Cohen, Aldis Hodge, Storm Reid, Harriet Dier, Michael Dorman
SCENEGGIATURA: Leigh Whannell
FOTOGRAFIA: Stefan Duscio
MONTAGGIO: Andy Canny
MUSICHE: Benjamin Wallfisch
Horror, 124 minuti
Tra i primissimi film a essere distribuiti direttamente in streaming in questo periodo di chiusura forzata delle sale, L’uomo invisibile di Leigh Whannell (2020) non ha l’unico merito di essere protagonista di questa coincidenza storica (mentre è incerto lo stesso futuro dell’industria cinematografica). Il film è anche un ottimo horror in cui convivono la veracità del genere, una certa eleganza visiva e stilistica e la capacità di essere al passo coi tempi intercettando paure profonde e collettive più o meno inconsce.
L’uomo invisibile del titolo è l’ex fidanzato della protagonista, genio della fisica ottica e assoluto manipolatore della ragazza, spaventata e totalmente annientata psicologicamente. Dopo la fuga della donna, l’uomo si uccide. Perlomeno così parrebbe, perché la protagonista, momento dopo momento, dettaglio dopo dettaglio, brivido dopo brivido, ha il sempre più forte sospetto che il suo aguzzino sia ancora lì accanto a lei, continuando a perseguitarla e a sgretolarle la vita.
La paura più profonda dei nostri tempi che L’uomo invisibile intercetta, scavando nelle profondità e nei non detti dell’inconscio collettivo come un certo tipo di horror sa fare, è quella di un pericolo costante e indefinibile, di una sensazione insondabile e sfuggente di minaccia terribile, implacabile e, appunto, invisibile, a cui si aggiunge la crescente difficoltà, sempre più vicina all’incapacità, delle immagini di fotografare e raccontare la “vera realtà” e l’essenza delle cose senza confondere e rendere torbide le acque. D’altronde, è lo stesso sguardo della protagonista a essere messo in discussione; sono la sua concezione e sensazione della realtà ad apparire labili, tanto che il film in un certo momento insinua anche il dubbio – non secondario per la suspance che si crea – che la donna sia effettivamente preda dell’ossessione che diventa follia. Allo stesso modo però, fallaci sono gli sguardi delle numerose telecamere e degli altri dispositivi, quelli cioè dello sguardo – della “verità” – esterno, distaccato e ufficiale.
Da questo punto di vista, la questione dello stalkeraggio, cioè la, per così dire, “tematica” più lampante, diventa in qualche modo il vaso di pandora da cui escono questioni più sottili e insondabili.
Lo stalkeraggio, del resto, era già centrale in un altro importante film horror recente che rifletteva, per usare un termine caro ai teorici, sullo stato delle immagini, sull’ambiguità della realtà e della sua percezione e su una minaccia (almeno all’esterno) insondabile: Unsane di Steven Soderbergh, film girato con lo smartphone e che, anche solo per questo motivo e per la consapevolezza teorica con cui veniva affrontato, rifletteva sulle nuove percezioni con cui osserviamo e viviamo ciò che ci circonda.
Whannell rilegge il canone classico creato nel 1897 dalle parole di H.G. Wells e nel 1933 dalle immagini di James Whale aggiornandolo alla contemporaneità. In qualche modo, è un film che racconta di una società che è liquida innanzitutto nelle sue paure e incertezze, sempre più insicura e spaventata.
Questo senso di minaccia costante risalta già nell’incipt, di straordinaria tensione dovuta soprattutto al sagace utilizzo della profondità di campo e degli spazi, enormi e allo stesso tempo opprimenti, della villa da cui la ragazza sta fuggendo, restituendo tutto il suo terrore. E non ci abbandonerà più, nei momenti di horror più sottile, suggerito e psicologico dominanti nella prima parte, pur non priva di attimi sanguinolenti, quanto in quelli più ruspanti, violenti, espliciti e scatenati degli ultimi segmenti. Come tipico della casa di produzione Blumhouse, nuovo punto di riferimento del cinema del terrore contemporaneo, il genere viene affrontato di petto, senza mediazioni e distacchi, per così dire, più autoriali e “gentili” – compresa la necessità nello spettatore di una certa predisposizione alla cosiddetta sospensione dell’incredulità. La Blumhouse, spesso con un approccio assolutamente verace, ha negli ultimi anni, per esempio, sfornato il cult Get out di Jordan Peele, sul razzismo più o meno nascosto, o la saga de La notte del giudizio, allegoria distopica sul crescente “distanziamento” sociale e sul controllo centrale sempre più forte. Tutti esempi di un certo ritorno al genere più puro e alla sua capacità di guardare dietro le apparenze dell’ufficialità e del legittimo.
Whannell impreziosisce il suo Uomo invisibile con una certa eleganza stilistica, che non fa a pugni con la veracità di fondo a cui abbiamo appena fatto cenno, ma che anzi contribuisce all’efficacia del film; lo si vede, per esempio, nel già citato utilizzo degli spazi e degli ambienti, così come nel ritmo che sa essere posato quando necessario, insinuando l’inquietudine a fior di pelle, e più scatenato nei momenti di tensione più evidente e chiara.