A un mese dall’alluvione infuriano le polemiche sul commissario straordinario per la ricostruzione e il governatore Bonaccini respinge ogni critica e rivendica l’efficienza a tutto campo del “modello emiliano”. Eppure il disastro in Emilia-Romagna, al di là delle polemiche strumentali, va inquadrato, oltre che sul piano ambientale, su quello delle politiche pubbliche che hanno precisi riscontri in una logica neoliberista di fondo.
La cementificazione massiccia, infatti, porta alla impermeabilizzazione dei suoli, aggravando il problema del deflusso delle acque. Lo slogan “Un passo avanti”, con cui Bonaccini ha vinto le elezioni regionali del 2019, è quello che ha portato la regione ad essere terza a livello nazionale per consumo di suolo. Ma la Regione potrebbe essere candidata ad assurgere al primo posto quando verranno attuate o completate le varie opere previste dal suo Piano Regionale Integrato dei Trasporti: il Passante di mezzo di Bologna, la Bretella Autostradale Campogalliano-Sassuolo, l’autostrada regionale Cispadana, il raccordo autostradale Tirreno-Brennero, l’allungamento dell’aeroporto di Parma.
Nel non lontano 2017 un pool di studiosi, urbanisti, architetti, in un libretto di poco più di un centinaio di pagine (Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna), curato da I. Agostini, denunciarono come gravemente pericolosa la nuova legge urbanistica regionale. In esso si denunciava come, dietro lo slogan del risparmio di suolo, si prevedesse «un consumo pari al 3% della superficie del territorio urbanizzato», a cui sommare la quantità di previsioni urbanistiche pregresse (il doppio o il triplo), non azzerate dai precedenti piani regolatori, in una convinta sinergia fra Regione e richieste esplicite dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili. Tale sinergia discende dallo sciagurato teorema secondo cui l’espansione edilizia è leva di crescita, anche se ha originato un’urbanizzazione frammentaria, ha prodotto grandi opere, drenato risorse pubbliche, privatizzato il territorio, svenduto il patrimonio storico delle città, eroso il suolo agricolo.
A questo quadro è stato funzionale il processo di deregolamentazione urbanistica. La Regione Emilia Romagna con la propria legge di settore ha abolito di fatto il ruolo della pianificazione urbanistica, sostituita dalla contrattazione pubblico-privato (che farà da apripista a livello nazionale), attraverso “accordi operativi”, promossi dai privati, che i comuni, in virtù di una procedura di silenzio-assenso, devono subire. La disciplina urbanistica viene negoziata e contrattata. È il trionfo del neoliberismo: tutto è conferito all’iniziativa dei costruttori, che vengono sostenuti dagli enti territoriali a rendere economicamente convenienti tali operazioni, attraverso la diretta negoziazione della disciplina urbanistica.
Ma tale traiettoria ha precise cause nel campo della finanza pubblica: la legge n. 448/1998, che ha introdotto il Patto di Stabilità nell’ordinamento italiano, ne ha fatto ricadere le conseguenze sugli enti locali, che devono partecipare agli equilibri di bilancio, con correttivi molto pesanti per eventuali deficit e l’uso di ogni margine di avanzo per ridurre il debito, sebbene vi abbiano contribuito solo per il 2%. Essa ha prodotto il taglio dei trasferimenti agli enti locali – oltre 30 miliardi dal 2009-2015 – e la Spending review con forti limiti alla spesa, integrando gli enti locali nel processo di abbandono e dismissione delle politiche pubbliche. Per far fronte alla situazione gli amministratori locali fanno ricorso, da un lato, all’aumento della tassazione locale, dall’altro, soprattutto agli oneri di urbanizzazione. Quanto più viene costruito, tanto più i Comuni fanno cassa.
Se si osserva, giustamente, che il cambiamento climatico ha un ruolo nell’innalzare la soglia del rischio cui far fronte, non ci si può nascondere che politiche urbanistiche scellerate hanno abbassato drasticamente le nostre possibilità di farvi fronte. Le politiche regionali dell’Emilia-Romagna fanno da sfondo a tale sfacelo.