«Guai ai poveri» ammonisce il titolo di un libro di Elisabetta Grande (Edizioni Gruppo Abele, 2017) dedicato alla «faccia triste dell’America», dove la povertà estrema è diventata parte integrante del paesaggio urbano, senza per questo produrre politiche solidali e di sostegno. E l’onda lunga dell’insofferenza non ha risparmiato l’Europa al punto che, per esempio, in Ungheria è vietato dormire per le strade, pena, se l’infrazione si ripete, il carcere (https://volerelaluna.it/mondo/2018/11/29/ungheria-la-dignita-dei-senzatetto-il-governo-la-corte-costituzionale/).
A Torino non ci si è ancora arrivati ma le avvisaglie non mancano. Se ne sono accorti persino, manifestando un cauto dissenso misto a imbarazzo, persino l’ineffabile TG3 regionale e le cronache cittadine di Stampa e Repubblica. Che cos’è successo, dunque, nel capoluogo piemontese?
Ha cominciato, a fine gennaio, il capo dei vigili urbani, Emanuele Bezzon: «Nessuno dia più un centesimo agli homeless del centro. Per loro, i portici e le piazze sono un bancomat». Un infortunio? Un eccesso di zelo? Non proprio. Difficilmente un funzionario si esprime in modo così esplicito senza la certezza di una copertura politica. E, infatti, la copertura è puntualmente arrivata: prima dalla vicesindaca, Sonia Schellino («La collocazione in una via centrale, sotto ai portici, consente visibilità e capacità di raccolta di offerte piuttosto consistenti. Spesso riceviamo richieste da parte di commercianti del centro che chiedono che la Città intervenga in termini di decoro») e, poi, dalla stessa sindaca Chiara Appendino («Già nel settembre 2018 avevo detto di non fare l’elemosina, e lo ribadisco. […] L’elemosina diventa una fonte di guadagno sufficiente a far rifiutare gli aiuti a disposizione»).
Momento di confusione collettiva o scelta politica consapevole? I dubbi sono fugati dalla bozza del nuovo “Regolamento per la tutela e il benessere degli animali” diffuso proprio in quei giorni, il cui punto 22 è esplicito e drastico: «È vietato, su tutto il territorio del Comune di Torino, utilizzare qualsiasi specie animale nella pratica dell’accattonaggio. […] Gli animali di cui sopra saranno sequestrati a cura degli organi di vigilanza e ricoverati al canile municipale, oppure in strutture definite in accordo con l’ufficio tutela animali». Nessun riferimento alle condizioni di vita degli animali (al cui benessere pure il regolamento è, stando alla rubrica, dedicato), ma solo all’attività dei loro possessori, descritta, per di più, in modo così generico da far intravedere l’obiettivo, neppur troppo occulto, di togliere i cani ai clochard (anche se accuditi e nutriti meglio dei loro padroni). Una punizione per gli uni e per gli altri. Una pura cattiveria.
Date le premesse, non stupiscono gli sviluppi del 4 febbraio, quando un commando di polizia municipale, supportato da camioncini dell’Amiat (la società che si occupa dei rifiuti nel capoluogo piemontese), ha cacciato i clochard che stazionavano sotto i portici delle vie del centro, non consentendo loro neppure di raccogliere cartoni e coperte, unici loro averi, considerati rifiuti e buttati nei camioncini per poi finire tra le immondizie. La versione degli autori del blitz è che l’operazione è stata fatta per indurre i senza dimora ad andare nei dormitori. Peccato che i dormitori torinesi siano pieni e non in grado di ospitare tutti i clochard della città (stimati in circa 2.500) e che la brutalità dello sgombero mostri, piuttosto, disprezzo per le persone e per le loro cose.
Il senso della manovra complessiva dell’amministrazione cittadina è univoco ed è stato immediatamente denunciato da un gruppo di associazioni (tra cui Gruppo Abele, Rainbow 4 Africa, CNCA, ASGI) che si occupano di disagio e immigrazione in città: «In nome del decoro delle piazze e dei portici del centro, con l’unico obiettivo di rendere invisibili le situazioni di più grave povertà agli occhi della città, si sta calpestando la dignità dei più fragili, di chi, sotto quei portici e in quelle piazze, è costretto a vivere e contraddice la tradizione solidale di una città come Torino. Queste dichiarazioni e questi provvedimenti, presi per giunta nei freddi mesi di gennaio e febbraio, in un periodo in cui la crisi economica acuita dalla pandemia ha aumentato il numero di senza fissa dimora, con associazioni del privato sociale e cittadini impegnati nel dare sostegno a chi ha meno, rappresentano bene lo scollamento in atto tra parte delle istituzioni e della cittadinanza. Lungi da noi credere che la povertà si contrasti solo con interventi assistenzialistici. Serve impegnarsi per eliminare le ragioni economiche e politiche che generano emarginazione e portano queste persone a essere costrette a vivere in strada. Come associazioni che operano quotidianamente a fianco di quanti sono segnati da situazioni di povertà estrema non vogliamo più diventare la foglia di fico dietro cui nascondere le vergogne della politica. E rinnoviamo al Comune di Torino e a tutte le istituzioni pubbliche interessate il nostro impegno ad aprire un confronto per studiare insieme, in maniera partecipata, azioni reali ed efficaci per la tutela e l’inclusione dei più fragili».
Non è la prima volta che in nome del decoro urbano (diventato un mantra dei vari decreti sicurezza varati indifferentemente da governi di destra e di centro sinistra) si attuano operazioni del genere. C’è una lunga e vergognosa casistica che percorre la penisola. Ma Torino, almeno sino ad oggi, ne era stata risparmiata, probabilmente in virtù di una storia secolare di attenzione al sociale e di una articolazione dei servizi, a partire dagli anni ’70 e ’80, particolarmente attenta ai più deboli. Ora accade, proprio mentre la pandemia ha accresciuto la povertà, le presenze nelle mense cittadine sono aumentate dell’80% e nei diversi centri di ascolto fanno la fila il 100% di persone in più.
Un solo commento. È ovvio che i problemi dei senza tetto non si risolvono con l’elemosina ma la sequenza dei fatti segnalati mostra che l’obiettivo di chi governa la città non è la realizzazione di interventi di sostegno e di inclusione ma, al contrario, quello di fare terra bruciata intorno agli ultimi, di cercare di nascondere la povertà invece di affrontarla, di ripulire il centro storico (scordandosi, contemporaneamente, delle periferie). Il tutto dimenticando che il decoro, anche a considerarlo un valore, si trasforma in ipocrisia se non è l’interfaccia di una società giusta in cui le persone vivono dignitosamente.
L’autore dell’articolo cita un testo di Elisabetta Grande che rappresenta uno “spaccato” – per molti inedito – di quella che, a mio parere, è la decadente democrazia statunitense.
A beneficio dei lettori eventualmente interessati, mi permetto di segnalare un altro saggio della stessa Elisabetta Grande “Il terzo strike, la prigione in America”. Si tratta di alcune brillanti considerazioni sulla politica penale del modello americano.
sempre piu spesso i senzatetto sono persone straniere.
é un fenomeno nuovo che contraddice la narrazione secondo cui i migranti trovano qui un futuro migliore, a cui hanno diritto, certo.
mi chiedo se abbia senso, anche per la loro sopravvivenza, lasciare “vivere” qui persone in modi che di civile non hanno nulla.
é civile “ospitare” tutti i migranti senza alcun limite e poi girarsi istituzionalmente dall altra parte e farli vivere cosi?
é civile fregiarsi di umanitarismo da salotto buono, traghettarli in italia e poi lasciarli vivere come bestie,
con tanti bei diritti sulla carta, e negare loro perfino il “diritto di fare l elemosina” per avere
un tozzo di pane?
e soprattutto: é civile supportare un immigrazione incontrollata che produce sempre piu situazioni che di umanitario non hanno assolutamente nulla?